Domenico di Bartolo, Sala del Pellegrinaio, Antico Ospedale S. Maria della Scala, Siena. WikiCommons

Formazione

Il virus e la storia

Passato e futuro nella gestione della pandemia: dalla Peste Nera al Covid-19

6 aprile 2020
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Giovanni Ciappelli
di Giovanni Ciappelli
Professore associato del Dipartimento di Lettere e Filosofa, Università di Trento.

Secondo una concezione che risale all’antichità, conoscere la storia dovrebbe impedire di ripetere nel presente gli errori commessi nel passato. In realtà l’uomo è uno strano animale, e nonostante sia già passato collettivamente da certe esperienze, riesce a ricadere negli stessi sbagli: per ignoranza, per il fatto di avere la memoria corta, perché le cose non si ripresentano esattamente nello stesso modo (altrimenti la storia sarebbe una scienza esatta, mentre è, casomai, una scienza umana). Così è avvenuto anche con la presente pandemia, dove si sono ripetuti atteggiamenti che la storia aveva già visto quando flagelli simili a questo ma molto più gravi, in una situazione in cui la medicina era ancora impotente, avevano colpito duramente per la prima volta l’umanità. A partire dal più disastroso di tutti, la Peste Nera del 1348 che ridusse di un terzo la popolazione europea, la successione degli avvenimenti è un refrain noto da tempo anche agli specialisti odierni del fenomeno, gli epidemiologi: avvisaglie del contagio, prime reazioni dei singoli e dei governanti, che intuiscono la necessità di fare qualcosa ma scontano la difficoltà di fermare del tutto il normale vivere sociale, adozione di misure di emergenza che possono risultare tardive. 

Nel confronto con il passato la situazione di oggi ha molti vantaggi, non solo perché la malattia è meno devastante (i morti di peste in Italia furono milioni), e le conoscenze della medicina sono infinitamente più elevate di quelle della società di ancien régime (per cui si prospetta già, in tempi ‘relativamente’ brevi, la produzione di un vaccino, un rimedio diffuso soltanto dalla fine del Settecento), ma perché fino dal momento nero della diffusione delle epidemie, a partire da sette secoli fa, sono state messe a punto misure che, a fronte della totale mancanza di rimedi medici, si sono rivelate particolarmente efficaci dal punto di vista della gestione sanitaria e della prevenzione. L’Italia, che fu fra i primi paesi colpiti dalla Peste Nera arrivata dall’Oriente, ha avuto il primato anche nell’elaborazione dei metodi per fronteggiare la crisi. I piccoli stati italiani del Rinascimento furono i primi a capire, nonostante non fossero ancora noti in modo esatto i modi di propagazione del contagio, che era necessario porre in atto con decisione misure di contenimento severe. Appartengono già alla fine del Trecento e al Quattrocento nel nostro paese misure come la quarantena per impedire la circolazione di persone potenzialmente infette, il lazzaretto come luogo di isolamento dei malati dal resto della popolazione (dal nome dell’isola di Venezia in cui fu istituito per la prima volta), la creazione dei Magistrati di sanità, uffici specifici dello stato che presiedevano alle misure straordinarie necessarie per gestire l’emergenza. Particolarmente diffusi in Italia erano già gli ospedali, nati come forme di accoglienza per i pellegrini e i viandanti, e sviluppatisi come luoghi di cura per chi non poteva permettersi in forma privata i servizi dei medici. 

Una situazione simile si sta riproponendo oggi, dove le misure di contenimento decise dallo stato italiano sono state le prime in tal senso in Occidente. È vero che sono state precedute dall’esempio della Cina, che però è uno stato non democratico, in cui è più facile imporre quel tipo di “dittatura emergenziale” che si rende necessaria in questi casi. È vero che ci sono stati degli oscillamenti iniziali, dovuti d’altronde all’assoluta novità di un fenomeno come la circolazione di questo particolare virus nella società di oggi. Ma di fatto l’Italia è stata il primo stato occidentale e democratico ad affrontare con decisione, da “stato forte”, la nuova crisi pandemica. E ha potuto farlo basandosi su una tradizione secolare di buone pratiche, volte ad assicurare il bene comune anche applicando i sacrifici collettivi che si rendono necessari.

Purtroppo i governi delle altre principali democrazie occidentali non hanno colto immediatamente l’esempio, e in parte hanno vanificato il vantaggio relativo derivante dalla conoscenza anticipata delle conseguenze dell’epidemia nel nostro paese (come è avvenuto in Spagna, Francia e Germania), in parte si sono resi responsabili di colpevoli sottovalutazioni, che derivano probabilmente anche dall’adozione di una diversa scala di valori. Penso alle ciniche e irresponsabili affermazioni di Boris Johnson sull’acquisizione di una immunità di gregge, che se adottata come criterio avrebbe prodotto dai quattrocento agli ottocentomila morti in Gran Bretagna (non a caso i fatti hanno costretto il governo inglese a un umiliante dietro-front), o alla gestione dell’epidemia negli Stati Uniti di Trump, dove l’adozione delle compatibilità di economia e produzione come criteri principali ha prodotto inizialmente una forte diffusione dell’epidemia, aggravata dalle caratteristiche di un sistema sanitario, avanzatissimo nelle eccellenze ma soprattutto privato, dove la parte pubblica non è in grado di coprire adeguatamente tutta la popolazione. 

La componente pubblica è invece maggioritaria nel nostro paese, dove situazioni come quella che stiamo vivendo dimostrano che una sanità funzionante (troppo spesso in passato falcidiata dai tagli ai finanziamenti con la giustificazione del risparmio) è la vera risorsa a cui attingere in tempo di crisi, come sottolineano gli sforzi compensativi di un personale medico e sanitario particolarmente consapevole e generoso. 

Tutto questo dovrà essere tenuto in mente anche per il futuro. Come sei-sette secoli fa l’invenzione di misure di reazione e la modifica delle strutture sanitarie dovuta alla crisi hanno contribuito a creare le premesse per lo sviluppo della medicina e della sanità moderne, la situazione di oggi ha la possibilità di far diventare l’Italia ancora una volta un laboratorio per la definizione di nuovi modelli di risposta ai possibili fenomeni di questo tipo: nel potenziamento del sistema sanitario pubblico, per renderlo adeguato alla gestione anche di simili emergenze, negli ulteriori metodi di contenimento delle epidemie, attraverso l’utilizzo di istituzioni e strumenti tali da consentire agli stati un controllo severo e rigoroso pur nel rispetto dei principi democratici, nella gestione delle conseguenze anche economiche, con l’adozione di meccanismi finanziari tali da riuscire a compensare gli effetti distruttivi della crisi. In questo senso le prime risposte dell’Europa come ente collettivo non sono ancora adeguate a quanto richiesto dalla situazione.

Ma un modo comune dovrà essere trovato, come è necessario fare quando il criterio principale deve essere, ora come in passato, la salvaguardia della vita.