Credits: #15758771 | @elimare, fotolia.com

Formazione

LA “SPAVENTOSA” LINGUA TEDESCA

Insegnamento e apprendimento del tedesco in Trentino. Un ciclo d'incontri di germanistica. Prossimo appuntamento 4 aprile

10 marzo 2016
Versione stampabile
Federica Ricci Garotti
di Federica Ricci Garotti
Professoressa associata presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento.

La lingua tedesca fa parte da tempo della storia del Trentino, fin da quando l’imperatore Joseph II, figlio di Maria Theresia, la impose come lingua obbligatoria nel 1778 nelle terre direttamente governate dalla Monarchia austriaca (dalle quali era allora esclusa la città di Trento, Principato vescovile con uno statuto sui generis). Risale al 1781 la «Nuova grammatica di lingua tedesca ad uso degli italiani compilata secondo il gusto moderno» del francescano Don Mattia Fischer, maestro nella sezione tedesca della scuola elementare di Rovereto, nella quale per la prima volta l’approccio didattico viene declinato in base all’identità linguistica e culturale dei destinatari.

Le sorti del tedesco in Trentino sono strettamente legate alle ondivaghe appartenenze politiche del territorio, di volta in volta vittima di bonifica linguistica come accadde durante il fascismo o dello sfacciato inseguimento del consenso popolare, come accadde negli ultimi anni del Novecento, quando i politici locali si arresero alle spinte che esigevano l’inglese come prima lingua straniera.

Siamo dunque ben lontani dalla tesi purista di Weinrich, secondo cui l’apprendimento della lingua straniera è semplicemente un atto di elementare cortesia reciproca. Il tedesco in Trentino è sempre stato in competizione con altre lingue (l’italiano, il latino, il greco antico, l’inglese), competizione sì di appartenenza etnico-culturale, ma anche derivata dall’immaginario collettivo. Se il proto-irredentista Clementino Vannetti (la definizione è di Quinto Antonelli), membro dell’Accademia degli Agiati, rifiutava la germanistica definendo la letteratura tedesca una «lugubre e spaventosa follia nordica» (1794), l’immagine del tedesco è sempre quella di una lingua troppo difficile e complessa per essere popolare. Mark Twain la definì “spaventosa” nella narrazione della sua esperienza di apprendimento ad Heidelberg e lo stesso Vannetti inveì in un sonetto satirico contro il “roco idioma di aspirate irte voci”.
“[…] Si dimenano i Giovanetti, è vero, le aspirate irte voci spicciando, i pavid’occhi stralunano, e la bocca, e le narici contorcon, di sudor freddo bagnati. Tenue fatica per sì grande acquisto, onde, se indarno le Alemanne carte avvicinan per anche al proprio ciglio, fia però lor dato appien d’intendere il blaterar di roco Tirolese venditore di pignatte”.

Parimenti la didattica del tedesco come lingua straniera (Deutsch als Fremdsprache-DaF) non ha mostrato un’autonomia epistemologica pari a quella assunta dall’omologo settore dell’inglese come lingua straniera. Tesi della glottodidattica anglofona diffuse negli anni Settanta come il concetto di “focus on meaning” di Ellis, ovvero il primato dell’uso sulla forma della lingua, o di “noticing the gap” di Swain, la valorizzazione della produttività dialogica degli apprendenti anche in fase di interlingua, sembrano adattarsi in misura minore al tedesco.

Una tappa fondamentale per la DaF è il 1991, data in cui viene pubblicato il saggio di Hufeisen “Englisch als erste und Deutsch als zweite Fremdsprache”, nel quale per la prima volta la glottodidattica tedesca prende atto del primato dell’inglese in Europa e assume l’approccio noto come “Deutsch nach Englisch”, in cui la preposizione “nach” (dopo) non ha solo valore temporale, ma anche socio-culturale, indicando di fatto una gerarchia linguistica. L’atteggiamento difensivo dei glottodidatti tedeschi giunge a compimento con la definizione di Riemer del tedesco come “Ergänzungssprache”, una lingua di completamento, certamente non prioritaria, dell’ educazione linguistica. 

Le conseguenze della dominanza dei principi glottodidattici elaborati per la lingua inglese lasciano irrisolte per il tedesco alcune questioni fondamentali, non risolvibili se non con una presa di posizione autonoma e specifica di DaF: il tentativo di rendere il tedesco accattivante è passato attraverso la riduzione della complessità sintattica e grammaticale, inducendo una sorta di “degermanizzazione”, ovvero un processo di snaturamento della lingua; la tolleranza nei confronti dell’errore formale, patrimonio peraltro non della didattica dell’inglese, ma della lingua franca, ha indotto confusioni e incertezze sulla effettiva soglia di accettabilità della deviazione dalla norma. L’indiscriminata ricerca del consenso e della motivazione degli apprendenti, infine, vanno ripensate. L’identificazione con l’oggetto dell’apprendimento non è un fenomeno necessario all’apprendimento. Evitare ad ogni costo lo straniamento dell’apprendente nel tentativo di rendergli familiare una lingua straniera potrebbe non essere una via verso il successo, ma, al contrario, un impedimento alla necessaria costruzione di un rapporto con l’estraneità, quella Fremdheit che rende liberi dall’abitudine e consente il cambiamento. 

Il tema è stato trattato dalla professoressa Federica Ricci Garotti nel primo di un ciclo di incontri dal titolo “Seminari di germanistica a Trento Ringvorlesung” (8 febbraio - 16 maggio). L’iniziativa, rivolta agli studenti e alla cittadinanza, si svolge a Trento presso la Sala degli Affreschi della Biblioteca Comunale ed è organizzata dal Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Ateneo trentino.