Odilon Redon, Dante e Beatrice, 1914. Wikimedia Commons.

Formazione

Filosofia e felicità

La “donna gentile” di Dante

25 marzo 2021
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Irene Zavattero
di Irene Zavattero
Docente di Storia della filosofia medievale, Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento.

Dopo la morte di Beatrice, per risollevarsi dalla profonda tristezza che lo aveva sopraffatto, Dante cerca consolazione nella filosofia, nella “donna gentile” di cui apprese i rudimenti frequentando, probabilmente, le scuole degli Ordini mendicanti a Firenze (“ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti”, Cv II xii 5-7). Dante studia e scrive di filosofia da laico. Era abbastanza raro nel Medioevo dedicarsi alle lettere pur restando nella condizione di laico – lo stesso termine laicus indicava non solo il non-chierico, ma anche il non-letterato, una persona del volgo –, e questa peculiarità caratterizzò il modo in cui Dante fece filosofia, soprattutto nel Convivio, usando il volgare italiano per essere compreso da tutti, in particolare proprio dai laici.

Il proposito che Dante esplicitamente si pone nel Convivio è di condurre tutti gli uomini all’amore della sapienza, soprattutto quei laici, i non litterati, che, per provvedere al sostentamento della famiglia o per adempiere a impegni civili, non poterono saziarsi alla mensa della filosofia, e persino a coloro che per pigrizia non vi si dedicarono. Imbandisce un banchetto, un convivio di sapienza, rivolto a tutti, dove non verrà servito “lo pane de li angeli” (I i 7), cioè la scienza teologica, come accade alla mensa dei chierici dove si parla di filosofia e teologia in latino, ma del “pane orzato” (I xiii 12), fatto cioè di un cereale grezzo che è la filosofia in lingua volgare. L’uso del volgare fu dettato dal desiderio di essere compreso da “principi, baroni, cavalieri, e molt’altra nobile gente, non solamente maschi ma femmine, che sono molti e molte in questa lingua, volgari e non litterati” (I ix 5).

Dante prende, quindi, alla lettera la frase della Metafisica di Aristotele, citata in apertura del Convivio, secondo cui “tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere”: nel novero dei laici, destinatari del suo trattato filosofico, include, oltre ai nobili d’animo e di stirpe, anche le donne a cui era, e per secoli sarà, precluso il mondo dei litterati universitari. Egli si adopera affinché il diritto alla conoscenza filosofica sia alla portata di tutti perché la posta in gioco è decisiva: essere felici. Soltanto la filosofia può portare l’uomo a conoscere il proprio fine ultimo, nel cui raggiungimento consiste la vera felicità.

Sapere e felicità costituiscono, come nei testi dei contemporanei professori di filosofia parigini e bolognesi, un binomio inscindibile. Per questo, Dante tesse un vero e proprio elogio della filosofia ed esorta a dedicarvisi per raggiungere la propria perfezione, cioè la perfezione della ragione che costituisce l’essenza dell’uomo.

Ci sono tre tipi di felicità: quella “buona” conseguita mediante l’esercizio delle virtù morali caratterizzanti la vita attiva, quella “ottima” raggiunta mediante le virtù intellettuali della vita contemplativa – entrambe, queste, realizzabili nella vita terrena e simboleggiate dalle figure rispettivamente di Marta e Maria del Vangelo di Luca (IV xvii 9-12; xxii 18) –, e infine la felicità suprema raggiungibile soltanto nella vita futura beata (III xv 2). In effetti la “beatitudine somma” consiste nella conoscenza dell’essenza di Dio che supera le possibilità dell’intelletto umano, così come la conoscenza degli enti immateriali (intelligenze motrici dei cieli per i filosofi, angeli per i teologi e per “la volgare gente”), della natura dell’eternità e della materia prima (III iv 9; xv 6).

Benché la filosofia sia segnata dal limite naturale della ragione, questo non impedisce all’uomo di raggiungere nel corso della sua vita terrena la felicità descritta da Aristotele nell’Etica Nicomachea mediante l’esercizio della razionalità al massimo grado, la cosiddetta “felicità mentale”. 

Nella Monarchia, il ruolo della filosofia è ancora determinante per il conseguimento della felicità terrena. L’uomo ha due fini da raggiungere (Mn III xv 6), l’uno terreno e l’altro celeste a cui corrispondono due tipi di felicità, quella terrena conseguibile mediante gli insegnamenti filosofici e la pratica delle virtù morali e intellettuali, e quella celeste, consistente nella fruizione della visione di Dio, raggiungibile attraverso gli insegnamenti spirituali e la pratica delle virtù teologali.

Questa duplice finalità che l’uomo deve realizzare è il fondamento della dottrina politica di Dante secondo cui l’uomo necessita di una duplice guida: dell’imperatore per realizzare la felicità terrena e del sommo pontefice per accedere alla beatitudine eterna. Secondo Dante, come non c’è subordinazione dell’impero al papato, così la felicità terrena, che è un fine razionale e indipendente, non è subordinata alla beatitudine eterna, ma anzi rappresenta il pieno appagamento del desiderio naturale dell’uomo di conoscere grazie alla pratica della filosofia. 

Nella Commedia, invece, si assiste a un capovolgimento: la filosofia non basta più a soddisfare appieno la sete naturale di sapere. Lo dimostra il modo in cui Dante raffigura la condizione dei filosofi pagani nel limbo (If IV, 31-42): essi vivono eternamente rapiti dal desiderio di conoscere Dio, senza sperare di poter mai appagare un tale desiderio. Soltanto l’aiuto della grazia divina può togliere per sempre la sete di sapere, come “l’acqua viva” che Gesù offre alla Samaritana e che, a differenza dell’acqua del pozzo, disseta per sempre (Pg XXI, 1-3). Dopo aver appreso da Piccarda che la virtù della carità acquieta la volontà e fa desiderare soltanto ciò che si ha, togliendo la bramosia (Pd III, 70-87), Dante comprende che l’intelletto “già mai non si sazia” se non viene illuminato dalla verità divina (Pd IV, 124-126). Sarà, dunque, la visione beatifica di Dio-Verità ad appagare pienamente ogni intelletto (Pd XXVIII, 106-108) e a costituire la beatitudine della vita eterna.