Fabrizio Cambi. Foto Alessio Coser, archivio UniTrento.

Formazione

Il conflitto fra arte e vita in Thomas Mann

Ripubblichiamo un testo scritto da Fabrizio Cambi, in ricordo dello studioso recentemente scomparso.

16 aprile 2021
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“Ammiriamo la poesia perché sa parlare proprio come la vita, ma siamo doppiamente commossi della vita, che parla, senza saperlo, proprio come la poesia”.
(Thomas Mann)

Il 18 aprile 1955 moriva a Princeton Albert Einstein. Thomas Mann, al quale questa notizia causò un gravissimo colpo, commemorò così il celebre fisico in una dichiarazione a un rappresentante della “United Press”: “Sono profondamente sconvolto (…) per ora posso dire soltanto che, con la scomparsa di quest’uomo, la cui fama aveva già acquistato, lui vivente, un carattere leggendario, si è per me spenta una luce, che da molti anni mi era di conforto nella torbida confusione del nostro tempo”.

Dopo poche settimane Mann, che dopo la guerra si era rifiutato di rientrare in Germania e si era stabilito in Svizzera, è colpito da una trombosi e il 12 agosto muore nel sonno, pochi giorni dopo che il Fondo nazionale ebraico aveva piantato vicino a Gerusalemme un boschetto in suo onore.

Nel mezzo delle celebrazioni del cinquantenario della morte di Einstein e di Thomas Mann [l'articolo è stato scritto nel 2005, ndr], cui aggiungiamo quelle imminenti di Brecht, morto nel 1956, liberando tali momenti dalla cornice formale e agiografica, possiamo cogliere queste occasioni per riflettere criticamente sul contributo dato da queste personalità. Non è qui certo possibile riassumere in poche righe la sterminata produzione narrativa e saggistica e l’intensissima presenza culturale di Mann, premio Nobel nel 1929, che, nato nella Germania guglielmina ed esordiente nella letteratura della fin de siècle, attraversa il primo conflitto mondiale, la Repubblica di Weimar, vive l’avvento del Nazionalsocialismo, soffre nell’esilio americano la catastrofe della guerra e affronta con strenuo rigore morale il secondo e definitivo esilio di Kilchberg.

Un filo conduttore, una chiave di lettura di Thomas Mann uomo e scrittore sono tuttavia individuabili proprio nelle parole ascritte a Einstein: la “grandezza scientifica”, l’ “atteggiamento morale”, l’ “idea umanistica”. Se alla “grandezza scientifica” sostituiamo o accompagniamo la grandezza artistica abbiamo una sorta di trinomio esistenziale, ideologico e poetologico che scandisce il lungo percorso letterario dell’autore.

Le origini alto-borghesi da parte paterna, assimilabili al patriziato della città anseatica di Lubecca, sono il fondamento e il viatico incrollabile dell’ethos e della “coscienziosità” di un implacabile e disciplinatissimo artigiano della scrittura che come artista non intende tradire le proprie radici e con la metodologia e l’habitus mentale del borghese ne traspone le dinamiche e le crisi irreversibili che sfociano nella prima guerra mondiale e poi nel Nazionalsocialismo.

Il conflitto arte-vita diviene così centrale nella letteratura del primo Thomas Mann che, a partire dalla raccolta di racconti Il piccolo signor Friedemann (1898), delle novelle Tristano (1903) e Tonio Kröger (1903), descrive  un ampio spettro di situazioni in cui artisti dilettanti e affermati, scrittori di grido e di secondo piano, tutti in cattivi rapporti con il regolare flusso della normalità borghese, inseguono la vita per attrarla a sé o per lasciarsi attrarre o per negarla. Di qui la critica di Mann al decadentismo della fin de siècle, all’esotismo di cenacoli poetici come il “George-Kreis” e all’atmosfera rarefatta dell’art pour l’art.

Nel mezzo si colloca l’epico affresco della decadenza della famiglia Buddenbrook nell’omonimo romanzo (1901) che, concepito a Palestrina, segna il primo clamoroso successo di uno scrittore erede del realismo ottocentesco che sublima in epopea la storia autobiografica di quattro generazioni il cui decadimento non può comunque intaccare la solidità e la ‘missione’ della classe borghese.

In questi anni, in particolare in Tonio Kröger, matura il programma estetico dello scrittore che in quanto tale può rappresentare la vita solo restandone ai margini, in un rapporto di distacco che non esclude un coinvolgimento affettivo. Per rappresentare la vita nella sua normalità e ingenuità occorre mettere a servizio la propria diversità di artista applicando una forma rigorosa che dia ordine e senso a una natura minacciosamente inarticolata e informe.

Se le opposizioni irrisolte di arte-vita, spirito-natura, caos-forma sono la struttura sulla quale si sviluppa gran parte della letteratura manniana, gli scenari a cavallo della prima guerra mondiale si ampliano a dismisura e investono sempre più la lacerante collisione di sistemi ideologici: l’antitesi di Kultur e Zivilisation nel debordante saggio delle Considerazioni di un impolitico (1918), una doverosa e sofferta battaglia di retroguardia di un artista tedesco che, arruolato “in servizio spirituale armato”, difende sotto la triplice costellazione di Schopenhauer, Nietzsche e Wagner i valori profondi della tedeschità; la contrapposizione fra la tradizione classico-illuministico-democratica di Settembrini e la cruda ideologia oscurantista ed escatologica di Naphta nella Montagna incantata (1924), il romanzo della svolta liberaldemocratica il cui epilogo lancia in forma interrogativa l’utopica speranza: “Chi sa se anche da questa mondiale sagra della morte, anche dalla febbre maligna che incendia tutt’intorno il cielo piovoso di questa sera, sorgerà un giorno l’amore?”

In una lettera a Clemence Boutell del 1944 Mann riassumeva schematicamente così il suo itinerario: “Da giovane scrissi i Buddenbrook. A cinquant’anni La montagna incantata. Adesso, avvicinandomi ai settanta, è imminente il volume conclusivo di Giuseppe e i suoi fratelli. Il primo era un romanzo tedesco, il secondo un romanzo europeo, il terzo un canto mitico-umoristico dell’umanità”. Basterebbero queste parole per definire la tetralogia, un corpus di settantamila righe costruito nell’arco di sedici anni, dal 1926 al 1942, un’epopea che, attingendo dalla tradizione biblico-mitica, la rappresenta e la reinventa, trascinando nel presente le sue motivazioni e la sua atemporalità tradotta e incanalata nelle congiunture della storia. “E quale potrebbe essere ora il mio elemento se non il mito unito alla psicologia? (…) La psicologia è di fatto il mezzo per sottrarre il mito agli oscurantisti fascisti e ‘rifunzionalizzarlo’ nella sfera dell’umano”.

Umanizzazione del mito, riportando alla medietà del presente le storie di Giacobbe ed esorcizzando così le aberranti ubriacature ideologico-mitologiche del pangermanesimo, la lezione del rispetto verso l’altro, eredità della conquista illuministica dell’individualità borghese, che in Adrian Leverkühn, protagonista del Doktor Faustus (1947), diviene per i rovesciamenti luttuosi della storia “vittima e anche profeta del declino e dell’abbandono del proprio popolo alla pazzia”, la forza indefettibile di incarnare lo spirito della narrazione, ribadendo nel tempo e nelle opere il sodalizio spirituale e artistico con Goethe, tutto questo rappresenta un lascito di una ricchezza inesauribile per ampiezza di immagine narrativa e profondità di indagine, per vastità di orientamento storico di cui oggi avvertiamo sempre più la perdita, per impegno morale e civile di cui, una testimonianza fra le tante, la prefazione alle Lettere di condannati a morte della Resistenza europea, voluta da Giulio Einaudi con la collaborazione di Cesare Cases, è una delle prove più alte e toccanti anche della possibile sintesi fra arte e vita: “Ammiriamo la poesia perché sa parlare proprio come la vita, ma siamo doppiamente commossi della vita, che parla, senza saperlo, proprio come la poesia”.

Il testo che qui viene ripubblicato è uscito nell'ottobre 2005, con lo stesso titolo, sul periodico dell'Ateneo Unitn (direttore Enzo Rutigliano) in formato cartaceo (pdf in download), accompagnato da un'introduzione redazionale: "In occasione del cinquantesimo anniversario della morte di Thomas Mann, il periodico Unitn ha voluto dedicare la copertina al grande scrittore tedesco, pubblicando un contributo di un raffinato e profondo studioso di Mann: Fabrizio Cambi. Docente di letteratura tedesca presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento, nonché preside della stessa facoltà, Fabrizio Cambi ha pubblicato saggi su Heinrich e Thomas Mann. Di quest’ultimo ha curato Tristano (Marsilio, 1992) e la prima edizione commentata di Giuseppe e i suoi fratelli (Mondadori, I Meridiani, 2000)."