Il gruppo di dottorandi, dottorande e docenti. 

Formazione

La storia dei concetti

Zaino in spalla a lezione di Filosofia tra le Dolomiti di Brenta

26 luglio 2021
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Francesco Ghia
di Francesco Ghia
Professore di Filosofia morale al Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento e referente per il curriculum di Filosofia del corso di dottorato in Culture d’Europa.

Libertate opus est. 
Ne va da ultimo della libertà.
(Aulo Persio Flacco)

È il 1789 quando, a Jena, Friedrich Schiller tiene una celebre Antrittsrede (Allocuzione inaugurale) dal titolo Was heißt und zu welchem Ende studiert man Universalgeschichte? (Che cosa significa la storia universale e a che fine la si studia?).

Sarà forse perché suggestionato da questo bel titolo del grande romantico tedesco, o magari perché desideroso di sottrarsi anche solo per qualche istante alle troppe Kabalen (intrighi) e alle poche Lieben (amori) della vita accademica, che l’8 e il 9 luglio scorsi un piccolo gruppo di dottorandi, dottorande e docenti del curriculum di Filosofia del corso di dottorato in Culture d’Europa. Ambiente, spazi, storie, arti, idee dell’Università di Trento (Corrado Bertani, Carlo Brentari, Francesco Ghia, Manuela Moretti, Andrea Pontalto, Gabriele Pulvirenti, Irene Zavattero) ha deciso di concludere le attività formative dell’anno accademico 2020/21 ragionando su che cosa significa la storia dei concetti e a che fine la si studia. E di farlo (finalmente in presenza!) non nelle comode aule di Palazzo Prodi, ma prendendo lo zaino in spalla e inerpicandosi per rifugi dolomitici.

La storia dei concetti sta alla filosofia come la storia universale stava, per Schiller, alla filosofia della storia: le pertiene cioè il compito di comprendere, chiarire e promuovere il progredire del sapere nel suo complesso e con ciò di tentare di aprire vie di libertà autentica. E non è un caso che siano stati proprio contemporanei di Schiller ad avvertire, tra i primi, l’esigenza di una storia del linguaggio e della concettualità filosofica in grado di integrare, sostanziandola di acribia filologica, la filosofia sistematica: è quanto avvenuto, per esempio, con filosofi, oggi ingiustamente caduti nell’oblio, come Johann Georg Heinrich Feder, Johann Friedrich Gurlitt o Georg Gustav Fülleborn. Una linea poi proseguita via via che, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, cominciava a farsi sempre più evidente la crisi delle grandi sistematiche e la necessità di saldare indissolubilmente insieme storiografia e teoresi: si pensi, al riguardo, anche solo a pensatori di notevole spessore come Gustav Teichmüller, Rudolf Eucken e, soprattutto, Wilhelm Dilthey.
 
La storia dei concetti è venuta così configurandosi come una forma di ermeneutica filosofica che è nel contempo da intendersi, come peraltro si conviene a ogni ermeneutica, tanto come metodo metafilosofico e storico-critico di riflessione della filosofia su se stessa, sui suoi compiti e sui suoi strumenti di lavoro (una sorta di cassetta degli attrezzi della fatica speculativa o, per restare in tema, di ‘zaino’ nel quale riporre gli oggetti necessari per un’arrampicata in sicurezza), quanto come messa alla prova del linguaggio filosofico per vederne continuità e cesure attraverso il nesso tra storia delle parole e della terminologia e storia dei problemi e delle idee. Insomma, inoltrarsi per i sentieri, alcuni più esplorati, altri meno, della storia dei concetti aiuta a rendersi fattivamente conto che lemmi e sintagmi uguali possono, se applicati in contesti differenti, assumere spesso, nel corso dei secoli, significati diversi; la storia dei concetti è, da questo versante, il momento privilegiato e opportuno per inverare appieno il senso del chiasmo che sta alla base di ogni storia della filosofia: identitas in novitate, novitas in identite

È ciò che, materialmente, ha fatto il gruppo di dottorandi, dottorande e docenti trentini. Spostandosi tra il Rifugio Croz dell’Altissimo, il Rifugio Selvata e il Rifugio Montanara, nell’incantevole scenario delle Dolomiti di Brenta, si è posto sulle tracce di concetti come contemplazione, intuizione, convenance, Umwelt/mondo-ambiente e ha inverato in questo modo il significato profondo di quella pratica che i sodalizi alpini hanno definito con il termine di ‘accantonamento’, ossia, a partire da una base di appoggio a cui tornare, il muoversi itineranti da un luogo a un altro di un’area circoscritta. 

Ora, se è plausibile che accantonamento possa derivare dal lemma latino canthum, traslitterazione del greco kanthos (che designa nella terminologia medica l’orbita oculare, ma che passa poi a indicare l’area liminare di una superficie circolare e quindi, nel latino di età imperiale, il margine della ruota, il ‘cerchione’, ovvero, per sineddoche, la ‘ruota’ tout-court), si può ipotizzare che la locuzione ad canthum indichi tutte le operazioni preposte a rinforzare le ruote affinché possano sopportare un maggior peso del carro. Non a caso, in italiano il termine ‘accantonamento’ si usa per lo più come sinonimo di ‘provvista’ e designa, nel lessico giuridico-amministrativo, le poste di bilancio destinate a coprire ammanchi di natura certa o probabile, ma di cui, alla data di chiusura dell’esercizio, risultino indeterminati tanto l’importo, quanto la data di sopravvenienza.
 
Se a tutto ciò si aggiunge che ‘canto’ indica pure (si vedano termini come cantone o cantuccio) un angolo raccolto, uno spazio appartato (si pensi al dantesco «Mostrocci un’ombra da l’un canto sola», Inf XII, 117), la latebra o il locus amoenus in cui poter fare, metaforicamente, provviste e scorte di nuove energie dopo una grande fatica, si comprende come la storia dei concetti sia, per la filosofia, un vero e proprio accantonamento, un rifugio del pensiero contro qualsivoglia tentazione – pur sempre incombente in ogni avventura del pensiero – di fissismo dogmatico.
 
In essa, infatti, per parafrasare il poeta stoico Aulo Persio Flacco, libertate opus est, ne va da ultimo della libertà.