Foto Adobe Stock

In libreria

Gesticolar parlando. Esempi di studi linguistici trasversali

a cura di Serenella Baggio e Claudio Nobili

15 aprile 2022
Versione stampabile

Non capita spesso che del linguaggio dei gesti si occupino storici della lingua, storici della letteratura e filologi. Ben altra attenzione gli dedicano glottodidatti, neurolinguisti, neurobiologi, sociologi, antropologi, etnografi. La miscellanea, nata da un seminario del dottorato internazionale "Forme dello scambio culturale" (Trento-Augsburg) tenuto da Claudio Nobili, mostra quante nuove strade si possano aprire quando la gestualità sia considerata nella sua dimensione storico-culturale e quanto poco ancora sappiamo delle sue potenzialità linguistiche e della sua variabilità. Il tema è di grande interesse per i giovani italianisti stranieri che si avvicinano alla nostra socialità; alcuni gesti sono universalmente noti come Italian gestures ed è diffusa la convinzione che non si possa veramente comunicare con italiani senza conoscerne i codici gestuali. La presenza di dottorandi stranieri nel seminario ha stimolato di riflesso l'attenzione dei dottorandi italiani e ognuno ha trovato il modo di raccordare il tema della gestualità al proprio particolare ambito di ricerca con la libertà consentita alle intelligenze giovani e curiose.

Serenella Baggio è professoressa presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell'Università di Trento.
Claudio Nobili è ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Umane, Filosofiche e della Formazione/DISUFF dell'Università di Salerno.

Dal capitolo Intender(si) e far intendere: lingua e corpo in contesto divulgativo (pagg. 6-8)

Il codice gestuale è organizzato in segnali corporei compiuti con le mani, le braccia o le spalle (secondo un’accezione più restrittiva) riconoscibili da un parlante normodotato e in possesso del codice non solo come quei segnali comunicativi portatori di quel determinato significato, ma come o repliche di uno stesso tipo di segnale o segnali diversi da altri dello stesso codice. Un gesto è dunque un’entità bifacciale segnale-“significato”; il segnale può essere descritto in termini di combinazione di tratti pertinenti e distintivi assunti dal gesto rispetto a quattro parametri formazionali: la forma della mano, l’orientamento del palmo, il luogo di esecuzione e il movimento. Il gesto simbolico e autonomo dal parlato di sollevare all’altezza del petto le mani con le dita unite nei polpastrelli e il palmo verso l’alto (mani a borsa) è traducibile in italiano con “tanta gente, pieno così, pieno di gente”, mentre il gesto di sollevare, aprire e chiudere rapidamente all’altezza del petto le mani configurate a borsa significa “paura eh!, hai (avuto) paura?”; come si può notare, i due gesti differiscono soltanto per un valore corrispondente allo stesso parametro (il movimento) e perciò formano una coppia che si può chiamare “coppia minima gestuale”. 
Il rapporto segnale-significato in un gesto è arbitrario (almeno in sincronia) se non appare immediatamente trasparente, necessario o motivato: è difficile ricavare dalla sola oscillazione in su e in giù nello spazio di fronte al parlante di una mano a borsa il significato in italiano di “disapprovazione” (il gesto simbolico e autonomo è infatti traducibile con “ma che cosa stai dicendo/facendo!?”). Detto altrimenti, la pre-conoscenza del gesto è condizione necessaria per comprenderlo. Inoltre, se guardiamo ad altre lingue e culture, lo stesso segnale trasmette significati radicalmente diversi: «Il gesto, in Grecia, significa “ottimo”, “perfetto”, mentre in Egitto e nel mondo arabo in genere esprime la richiesta di aspettare, di avere pazienza. In Cina, infine, sta ad indicare “poca quantità”». Al contrario, sono motivati i gesti iconici, il cui segnale rappresenta visivamente il significato abbinato; esempi paradigmatici di gesti iconici sono i gesti coverbali perché imitativi del parlato concomitante: l’azione di tracciare nello spazio di fronte al parlante con le mani aperte e le dita leggermente piegate un cerchio può essere facilmente associata a “qualcosa di intero, completo”. 
I due esempi di gesto simbolico, autonomo e arbitrario per “ma che cosa stai dicendo/facendo!?” e di gesto coverbale motivato per “qualcosa di intero, completo” possono essere concepiti poli estremi di un continuum lungo cui si collocano gesti simbolici e autonomi intermedi con un certo grado di iconicità. Per esempio, il gesto di “richiesta di sintesi” in italiano (aprire e chiudere a pugno nello spazio di fronte al parlante una mano con il palmo verso l’alto) è certamente più iconico (meno arbitrario) di quello per “disapprovazione” in quanto raffigura qualcosa di spremuto per prelevarne il succo .

Dal capitolo Alla ricerca dell’intimità culturale nei gesti. Rilettura di De Jorio 1832 (pagg. 36-38)

Dove lo studio dei gesti si allontana da quello del linguaggio è in una convinzione, mai venuta meno, che i gesti, innati o imitativi, siano motivati e non si possa quindi applicare loro il presupposto dell’arbitrarietà del segno. Su questo ragionava già la filosofia medievale. Dante, ad esempio, stabilisce una gerarchia (pensiero-parola-gesto) a partire da quanta libertà d’azione è concessa nella natura umana. Ognuno dei tre livelli ha dei limiti: «è posto fine al nostro ingegno in ciascuna sua operazione, non da noi ma dall’universale natura; e però è da sapere che più ampi sono li termini dello ‘ngegno [a pensare] che a parlare, e più ampi a parlare che ad accennare» (Convivio, III iv.12). Tenendo conto della sua teoria del segno linguistico (De vulgari eloquentia, I iii.2-3: «nam sensuale quid est in quantum sonus est; rationale vero in quantum aliquid videtur ad placitum»), appare chiaro che arbitrarietà è libertà («ad placitum»). Quello che è corporeo, il significante della parola come il gesto, ha più vincoli di quanti ne abbiano il significato della parola e il pensiero intelligente. 
[…]
Faccio subito un esempio, per essere più chiara. L’antropologo Bruno Pianta studiò, alcuni anni fa, quando ancora era vivo e vitale, il mondo dei marginali filmando imbonitori e venditori ambulanti nello svolgimento del loro mestiere, sulle piazze, mentre facevano il treppo, cioè assembravano persone (Gli Scarpinanti. Ambulanti e imbonitori in Lombardia. Prima parte: I battitori. Seconda parte: I cantastorie, Regione Lombardia, prod. Orti Studio, 1978). Documentò l’abilità dei battitori di usare due canali di comunicazione nel treppo. La lingua (una varietà di italiano popolare), veloce e coinvolgente per portare i gagi, gli ingenui curiosi, a diventare acquirenti di oggetti inutili (rottura del treppo), veniva inframmezzata con singole parole del gergo e con gesti rivolti, invece, al compare, lo zaraffo (anche più di uno, fino a tre), mescolato tra la gente per vigilare che nel treppo non ci fossero elementi di disturbo, ad esempio intrusioni di ladri di portafogli (lasagnari, scarpe) o di uomini alla ricerca di contatti sessuali (prosi). Il battitore, favorito dalla posizione frontale, vedeva il maneggio e lanciava l’avvertimento che allarmava lo zaraffo (caldi ‘attento!’), poi, dopo qualche parola lasciava cadere il termine gergale riferito alla tipologia dell’intruso che era necessario allontanare, affidando ai gesti il compito di indicarne la posizione nel treppo (indice portato a diverse porzioni del naso, dietro, davanti, fianco sinistro, fianco destro). Gergo e gestualità passavano inosservati ai clienti, concentrati sugli oggetti e catturati dall’eloquenza dell’imbonitore: il gergo perché frammentato nel discorso, i gesti perché toccarsi il naso o il viso parlando è, tutto sommato, una cosa naturale. Ma erano immediatamente recepiti dal compare per il loro contenuto illocutivo: erano il segnale che una persona andava portata fuori dal treppo perché il treppo non andasse a cattivo fine. Anche l’imbonimento, naturalmente, aveva un carattere illocutivo, visto che il suo scopo era la persuasione (persuadere la gente di aver bisogno di oggetti che non cercava e che non le servivano; farglieli comperare), ma qui contava l’abilità retorica del battitore nella costruzione progressiva del discorso, una paziente tela di ragno fatta per acchiappare le mosche.

Per gentile concessione delle Edizioni dell'Orso.