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In libreria

Antonio Giolfino. Intagliatore veronese del Rinascimento

di Mattia Vinco

2 settembre 2022
Versione stampabile

Antonio Giolfino si profila quale protagonista della scultura lignea veronese in epoca rinascimentale, come testimoniano la commissione dell’ancona dell’altare maggiore del duomo di Verona, realizzata in collaborazione con Liberale da Verona nel 1489, e la richiesta da parte del consiglio cittadino di valutare la buona riuscita delle statue del Palazzo Comunale assieme allo stesso Liberale e a Domenico Morone tra 1492 e 1493.
Il volume presenta per la prima volta il catalogo completo di questo intagliatore, membro di una delle famiglie maggiormente attive nell’ambito artistico veronese, e ne pone in evidenza il ruolo di primo piano all’interno della scena artistica locale, che gli valse commissioni anche nei territori di Bergamo, Brescia, Trento e Vicenza.

Mattia Vinco è ricercatore presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell'Università di Trento
 

Da pagg. 9-36

A Verona alla fine del Quattrocento
Il 9 ottobre 1492 il consiglio comunale di Verona richiedeva una perizia a «tres pictores ex melioribus hujus civitatis» per giudicare la statua di Alberto da Milano raffigurante il patrono cittadino San Zeno Vescovo, posta sull’arco che collegava la Domus pietatis alla Loggia del Consiglio. In quell’occasione non si specificavano i nomi dei tre artisti prescelti, ma si richiedeva che tra di loro ci fosse un intagliatore. Il giudizio che ne scaturì fu negativo e si propose di sostituire l’opera, affidando la commissione della nuova statua a maestro Angelo, che si impegnava a realizzarla per la cifra di venticinque ducati (fig. 1).
L’identità biografica dei tre artisti emerge fortunatamente da un documento del 26 febbraio 1493, collegato al precedente, allorché venne letta in consiglio comunale la loro relazione riguardo le sculture collocate sul fastigio della Loggia del Consiglio.
A esprimersi furono i pittori Liberale da Verona e Domenico Morone e l’intagliatore Antonio Giolfino, i primi due identificati da Giuseppe Gerola, il secondo da Giuseppe Biadego nel suo pionieristico studio sulla famiglia Giolfino, che vantava tra le sue fila numerosi intagliatori e pittori attivi nel XV e XVI secolo. In quest’ultimo caso il giudizio fu positivo, ma su loro consiglio si stabilì di versare a maestro Alberto solo la metà del compenso totale, richiedendo al contempo al lapicida alcune modifiche prima di effettuare il saldo dell’intero lavoro.
La documentazione portata alla luce da Orti Manara nel 1853 riguardo la consulenza sulle statue della Loggia del Consiglio impone così di riflettere sull’effettiva centralità di Antonio Giolfino nel panorama artistico veronese.
[...]
Dato che Antonio, sfortunatamente, non ricevette gli onori tributati dalla letteratura artistica a Domenico Morone e Liberale da Verona, si potrebbe pensare che la sua presenza fosse dovuta a una circostanza sostanzialmente casuale. Non va però dimenticato che nessun altro intagliatore rinascimentale veronese godette di una qualche fortuna presso gli storici e gli eruditi locali e non, e che, anzi, siamo davanti all’unico artista del legno citato dalla storiografia ottocentesca prima degli studi moderni dell’ultimo quarto del secolo scorso.
Si tratta di un caso del tutto diverso da quello di Giovanni Zebellana il quale, dimenticato dalle fonti, è diventato celebre grazie alla sopravvivenza di qualche documento d’archivio a cui è stato assegnato dalla storiografia recente un’importanza decisamente sproporzionata rispetto al suo reale ruolo storico-artistico.
Non è invece stato sufficientemente messo in evidenza che Diego Zannandreis, pur senza identificarli come membri della famiglia Giolfino, nominava gli intagliatori Bartolomeo e Antonio quali rappresentanti di una produzione di ancone lignee rinascimentali da lungo tempo caduta nell’oblio. Lo storico veronese doveva la conoscenza dei loro nomi a un documento pubblicato da Biancolini nel 1765 e aveva così colto l’occasione per ipotizzare che proprio loro fossero gli autori di un’ancona al tempo conservata nel chiostro di San Fermo Maggiore e descritta come «divisa in vari comparti sul gusto gotico, con figure a mezzo rilievo di santi, messi ad oro, fuorché le teste, ove da un lato sta scritto: “Hoc opus fecit fieri Magister Luchesius de Sancto Paulo MCCCCLVI”.
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La riscoperta di Antonio Giolfino
La Ericani e la Castri avevano entrambe messo in evidenza «il motivo del manto “rimboccato” sulle spalle» quale elemento morelliano certo per identificare le Madonne di Giolfino, anche se, a pensarci bene, questa utile acquisizione non venne utilizzata adeguatamente per accrescerne il catalogo. In realtà, la particolarità con cui il mantello viene disposto sulle spalle delle figure non rappresenta l’unico elemento che permette di distinguere con sicurezza le sue opere, che sono altresì caratterizzate da un panneggio composto da pieghe complicate, frante e acciaccate, che terminano in un bordo increspato lungo la linea del basamento. Non mi è stato di conseguenza difficile aggiungere nuovi numeri al catalogo di Antonio Giolfino, oltre a quelli fino a qui menzionati resi noti da Guerrini sotto il nome di Stefano Turrini.
Si tratta sempre di Madonne con il Bambino conservate nella chiesa di San Giovanni Battista a Badia Polesine, nella casa canonica presso la chiesa di Santa Maria Assunta di Manerba del Garda e dell’esemplare di proprietà degli antiquari Bruno Botticelli e Flavio Pozzallo, gemello della statua documentata di Riva del Garda (figg.2-3)
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Forse è proprio alla luce di queste collaborazioni diversificate che trova una spiegazione la disparità di trattamento delle superfici delle sculture di Antonio, caratterizzate da un repertorio e da soluzioni tecniche difficilmente riconducibili a uno schema unitario e coerente. Come è noto, lo studio di questo aspetto soffre del cattivo stato di conservazione in cui versano molte opere, spesso deturpate da ridipinture successive. Per quanto riguarda le Madonne dorate, però, la preziosità del materiale che le riveste pare abbia svolto una sorta di funzione protettiva e così, in molti casi, possono ancora essere ammirate nel loro stato di conservazione originale.
Il vasto repertorio decorativo adottato da Antonio e dai suoi collaboratori comprende l’impiego di punzoni nella Madonna con il Bambino di proprietà Botticelli e Pozzallo, l’applicazione della pastiglia dorata nella Madonna di Rovereto, il combinato delle due lavorazioni nella Madonna di Riva del Garda, con l’aggiunta della decorazione a lacca rossa nella Madonna con il Bambino di Brentonico. Di notevole interesse sono poi le decorazioni dipinte sulle Madonne di Manerba del Garda e di Calvisano, dove sono ancora visibili le tracce bianche e variopinte dei colori a lacca.
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Resta comunque l’impressione che l’intagliatore veronese verso la fine della sua attività abbia adottato modi più austeri e nuovamente monumentali in opere come il Sant’Antonio abate del Museo Diocesano di Trento e il San Pietro apostolo già a Bogliaco. In particolare, il mascherone dello ieratico Sant’Antonio abate sembra anche accennare a un tentativo di resa psicologica, lasciando intendere che Antonio, nelle ultime prove, si sia confrontato con tematiche di gusto cinquecentesco, che restarono comunque al di fuori della portata del suo mondo figurativo.

Per gentile concessione della casa editrice Grafiche Aurora.