«Noi figli di Roma», aveva proclamato Mussolini ai fascisti milanesi nel 1922, con parole anticipatrici e programmatiche di una politica culturale che sul mito e sul culto di Roma antica avrebbe costruito i propri codici narrativi e le proprie ritualità, attingendone motivi iconografici e simboli estetici. Il centenario dalla marcia su Roma offre l’occasione a un gruppo di studiosi di diversa provenienza disciplinare di riflettere criticamente sul rapporto tra fascismo e romanità, e di tentare una sintesi dei risultati raggiunti dall’ampia storiografia che negli ultimi decenni si è depositata sul tema. Privilegiando linee di ricerca finora sviluppate solo marginalmente o parzialmente, i saggi raccolti nel volume esplorano la presenza e l’incidenza del mito di Roma in diversi ambiti e profili della vita pubblica italiana, individuando i diversi elementi che concorsero a costruirlo e valutando l’uso propagandistico che ne fece il regime.
Elvira Migliario è professoressa presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento.
Gianni Santucci è professore presso il Dipartimento di Scienze giuridiche dell'Università di Bologna.
Dall'Introduzione (pagg. 1-6)
Il 27 ottobre del 2022 sono trascorsi cent’anni dall’inizio della marcia su Roma condotta, fra insurrezioni e trattative, dal Partito nazionale fascista. Fu questione di pochissimi giorni e Benito Mussolini giurò come Presidente del Consiglio; ebbe così inizio il governo più longevo nella storia dell’Italia unita, rimasto in carica fino al 25 luglio del 1943.
La storia è nota. Altrettanto noto, crediamo, il fatto che il mito di Roma antica costituì una pura ed inesauribile sorgente a cui Mussolini, e il fascismo tutto, si abbeverarono con assiduità già prima dell’ascesa al potere e poi durante il lungo tempo del suo esercizio. Nelle acque di tale sorgente si specchiava nitida l’immagine di Roma ora «saggia e forte», ora «disciplinata e imperiale»; Roma, «segnale della civiltà uni- versale» che «dà al mondo le leggi eterne dell’immutabile suo diritto». Sempre e comunque italica, essa offriva modelli, insuperati nella storia, di potenza militare, di virtù civili e politiche e lasciava in eredità un ricco e variopinto arsenale di simboli, di motivi estetici e iconografici, di cui l’ideologia fascista si poteva nutrire nella costruzione dei propri codici narrativi e delle proprie ritualità.
«Noi figli di Roma» aveva proclamato Mussolini ai fascisti milanesi il 4 aprile del 1922, tuttavia si voleva essere figli «protesi in avanti»: si stava alla romanità, infatti, non tanto e comunque non solo con l’orgoglio di appartenere ad un nobile passato, ma soprattutto con lo sguardo rivolto al futuro dell’Italia in una dimensione dinamica destinata ad una continua trasformazione.
Si è giustamente osservato come tale mito nel fascismo sia «uno dei più analizzati in Italia e all’estero»; in effetti il ruolo cruciale che Roma antica assunse nella costruzione dell’ideologia fascista è divenuto oggetto di un’ampia e articolata storiografia che, soprattutto nel corso dell’ultimo ventennio, ha esplorato molte delle forme e delle modalità con cui il fascismo si appropriò della romanità al fine di creare una propria mitologia fondativa.
Il progetto di questo libro nasce proprio dall’intenzione di mettere a punto […] alcuni dei vari filoni di ricerca che si sono venuti sviluppando di recente sul tema comune della romanità fascista […] ed è parso opportuno farlo da un lato privilegiando linee tematiche finora sviluppate solo marginalmente o parzialmente, dall’altro evitando di riprendere temi su cui la storiografia ha ampiamente e ripetutamente indugiato.
I saggi qui raccolti considerano appunto apparati teorici e modalità operative mediante i quali il fascismo procedette ad appropriarsi dell’eredità di Roma e a farne uso strumentale. Innanzitutto, tramite il ricorso a un passato interpretato più o meno disinvoltamente come una sinfonia straordinaria di glorie e di realizzazioni grandiose, il regime mirava a riscrivere la vicenda storica nazionale narrandola come uno snodarsi ininterrotto di eventi che a partire dall’età romana avevano concorso a preparare l’Italia fascista, e che ne legittimavano le aspirazioni internazionali. Ma a quel passato, a cui si attingeva tramite analogie spesso arbitrarie e allusioni fuorvianti, ci si rivolgeva soprattutto sia per individuarvi antecedenti in grado di giustificare scelte politiche e istituzionali, sia per trarne modelli culturali che, plasmati da ambienti intellettuali in varia misura schierati col regime, potessero incidere trasversalmente sui vari settori della società.
Tuttavia, benché il fascismo facesse della romanità il mito centrale e costitutivo del proprio universo simbolico, e proclamasse di ispirarsi al modello romano per costruire una nuova struttura statuale in chiave antiliberale e antiparlamentare, nella prassi legislativa e istituzionale i risultati furono inevitabilmente irrilevanti […]
L’accertata pervasività del ricorso alla romanità in tutti i settori della società fu d’altronde il portato di un processo evolutivo snodatosi per l’intero Ventennio, dopo un inizio in cui il mito e il culto di Roma giocarono un ruolo complessivamente modesto nella costruzione ideologica del regime. Se solo nel 1929 il fascio littorio divenne il simbolo ufficiale dell’Italia fascista, il richiamo alla storia romana antica agì del tutto marginalmente perfino nell’atto eversivo che in apparenza più le si ispirava, la marcia su Roma […] .
La costruzione del mito fascista della romanità, esito di una «vasta operazione di scomposizione e ricomposizione» del passato inteso come repertorio di temi attualizzabili e di modelli a cui si poteva più o meno agevolmente aderire, fu certamente un processo in molte tappe, fortemente condizionato da esigenze contingenti di politica sia interna sia internazionale […].
Benché dunque l’appropriazione della romanità da parte del regime sia andata sviluppandosi e articolandosi per tutto il corso del Ventennio, con un crescendo riconoscibile negli anni segnati dalle celebrazioni dei tre bimillenari virgiliano (1930), oraziano (1936) e augusteo (1937) […] l’idea mussoliniana di un intervento radicale sulla città di Roma risale già ai primi anni Venti. Mediante sventramenti, demolizioni e nuovi scavi archeologici ci si proponeva di creare spazi ampi e inediti nei quali costruire edifici e monumenti in grado di competere con quelli antichi; alla realizzazione della Roma fascista – il cui culmine fu senz’altro raggiunto con il complesso architettonico-monumentale dell’EUR (E 42) – concorsero i più importanti progettisti dell’epoca, raccolti intorno a Marcello Piacentini, alla ricerca di una modernità ‘italiana’ di stile «nazionale-romano», lontana dalla «celebrazione retorica del classicismo» come pure dai caratteri del modernismo internazionale. A Piacentini fu affidato anche il progetto del nuovo quartiere di Bolzano costruito intorno al complesso monumentale alla Vittoria che celebrava l’acquisizione della regione sudtirolese e l’estensione al Brennero dei confini nazionali […].
Che l’immagine e la rappresentazione della Roma fascista e imperiale si fondasse inevitabilmente sull’inesauribile repertorio simbolico e iconografico offerto dai resti architettonici e monumentali antichi veniva ribadito dai numerosi interventi di scavo e di tutela promossi a Roma, tappe indispensabili di un percorso di valorizzazione delle tracce archeologiche che mirava a esaltare le realizzazioni della civiltà imperiale romana in quanto anticipazioni di quelle dall’impero fascista, e a suggerire una continuità non solo ideale che annullava qualunque divario storico-cronologico. […]
L’amplificazione mediatica della romanità, i cui scopi propagandisti emergono palesemente dai numerosi filmati girati nei siti archeologici, non poteva fare a meno del cinema, riconosciuto dallo stesso Mussolini come il mezzo di comunicazione di massa più efficace per diffusione e trasversalità; ma […] la filmografia a soggetto romano […] ebbe esiti fallimentari, a differenza del successo riscosso dai documentari dell’Istituto LUCE, con i quali siti e monumenti scelti tra i più dimostrativi della grandezza imperiale romana venivano illustrati e raccontati a beneficio delle masse. Mentre il didascalismo propagandistico che caratterizzava la produzione del LUCE si rivolgeva soprattutto al pubblico meno acculturato, la stessa carica ideologica animava l’iniziativa di enti o istituzioni vocati a forme culturali ‘alte’: ne costituì l’esempio più significativo l’Istituto di Studi Romani […].
Come prima si è detto, obiettivo principale di questa raccolta di saggi è l’esplorazione della romanità fascista, coniugando la sua complessità in una dimensione di sintesi. Alla luce di questa prospettiva si è inteso dare un giusto risalto al ruolo che ebbe il diritto romano nella costruzione di una cultura giuridica fascista. […].
Altro elemento suggestivo e non sempre approfondito nelle riflessioni intorno al nostro tema è rappresentato dalle discontinue posizioni che l’alleato nazista maturò nei confronti dell’eredità romana […].
Se la riflessione dei giuristi tedeschi di tendenza nazionalista più estrema si alimentava di componenti razziste che inducevano ad affermare la natura ‘orientale’ e ‘semitica’ del diritto romano, altrettanto paradossalmente […] negli ambienti intellettuali italiani l’affermazione di una superiorità razziale del popolo di «puro tipo italico» che aveva prodotto la civiltà romana portò, nel clima prebellico degli ultimi anni Trenta, alla teorizzazione dell’inferiorità della «razza greca», e alla svalutazione della civiltà greca in quanto esito di un «meticciato» con elementi orientali che ne aveva corrotto la purezza originaria.
Sintetizzando, tutti i saggi qui rapidamente presentati sembrano concordemente indicare che il mito di Roma costituì effettivamente un pilastro portante della struttura ideologica del regime […] prodotto di una strategia non solo propagandistica, le cui basi e obiettivi culturali appaiono di spessore tale da rendere impossibile, oltre che inopportuno, sottovalutarne la natura, riducendolo a mero esercizio di vuota retorica, anziché riconoscervi l’ancoraggio ideologico di un regime che ricorreva intenzionalmente al passato quale fondamento legittimante del proprio futuro.
Per gentile concessione di Mondadori Education.