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In libreria

Donatello. Il Rinascimento

a cura di Francesco Caglioti, Laura Cavazzini, Aldo Galli, Neville Rowley

17 febbraio 2023
Versione stampabile

Il volume e l’omonima mostra (Firenze, Palazzo Strozzi e Museo Nazionale del Bargello, 19 marzo 2022 – 31 luglio 2022) ricostruiscono il percorso di Donatello, mirando ad allargare la riflessione nel tempo e nello spazio, nei materiali, nelle tecniche e nei generi, e a ricostruire lo straordinario percorso di uno dei maestri più importanti e influenti dell’arte italiana di tutti i tempi, a confronto con capolavori di artisti come Brunelleschi, Masaccio, Andrea Mantegna, Giovanni Bellini, Raffaello e Michelangelo.
Gli artefici debbono riconoscere la grandezza dell’arte più da costui che da qualunque sia nato modernamente, scriveva Giorgio Vasari. Con questa precisa citazione Francesco Caglioti, curatore del volume e della mostra, apre quella che si può definire senza ombra di dubbio un’operazione editoriale senza precedenti e impresa rara ai nostri giorni.
Afferma sempre Caglioti, nella sua introduzione al catalogo, Donatello «è stato infatti non semplicemente l’artefice di una svolta epocale al pari di Giotto, di Raffaello o di Caravaggio, ma molto di più, cioè un fenomeno di rottura che ha introdotto nella storia nuovi modi di pensare, di produrre e di vivere l’arte. E siccome il futuro non si costruisce mai senza il passato, questa rivoluzione si è originata in Donatello da una memoria diretta dell’arte prima di lui che, a quanto pare, lungi dal limitarsi a quella romanità classica su cui si tende comunemente ad appiattire il senso della parola “Rinascimento”, ha smosso millenni, ovvero tutto quello che ai suoi occhi si presentava come antico, fino all’epoca di Giotto. Il ‘terremoto’ Donatello è stato così violento da determinare ripetute scosse di assestamento, e per una fitta serie di generazioni cominciata poco dopo il suo esordio di ventenne (1406)». Un artista, dunque, che ha permesso al curatore di superare la semplice forma della monografia per tentare un “affondo” che non è mai esplorato nelle pubblicazioni precedenti: «le opere di Donatello (a Firenze più di cinquanta, come non è mai successo prima) – prosegue Caglioti – saranno intercalate da altre non solo di scultori, ma anche di pittori, coprendo per via di sculture, di dipinti e di disegni una cronologia che a Firenze si dipana in sostanza fino ai giorni di Vasari, con una coda di primo Seicento».
Oltre 400 pagine, con un apparato iconografico di 300 immagini, restituiscono nell’esauriente saggio iniziale del curatore, nelle introduzioni alle quattordici sezioni e attraverso la schedatura delle oltre 130 opere in mostra, un corpus enorme come quello donatelliano.

Francesco Caglioti è vicepreside della Classe di Lettere e filosofia della Scuola normale superiore di Pisa
Laura Cavazzini è professoressa presso il Dipartimento di Lettere e filosofia dell'Università di Trento
Aldo Galli è professore presso il Dipartimento di Lettere e filosofia dell'Università di Trento
Neville Rowley è curator dell'Arte italiana fino al 1500 presso lo Staatliche Museen zu Berlin

Dalla sezione Vita di Donatello (Francesco Caglioti, pagg. 25-28)

[...] La famiglia di Donatello, cittadina di Firenze, era dell’Oltrarno, e apparteneva, nelle persone del padre Niccolò e del nonno Betto, al popolo dei tiratori di lana, ovvero degli operai di quest’Arte, allora cosi centrale nell’economia e nella società fiorentina. L’estrazione medio-bassa sollecitava il giovane a un percorso lavorativo nel solco familiare, se non fosse evidentemente occorsa in lui una precoce vocazione alle arti figurative di cui non abbiamo nessun annuncio documentario esplicito: ne abbiamo invece direttamente i primi frutti concreti, che lo mostrano ventenne già inserito con successo nel cantiere del Duomo fiorentino (1406), gestito dall’Arte della Lana tramite l’Opera di Santa Maria del Fiore. [...]
I fatti successivi della vita familiare dello scultore si possono risolvere qui in poche battute. Non si sposò mai, per cui tra gli anni Venti e Trenta viveva ancora con la sorella Tita, più grande di lui di cinque anni, e con la madre Orsa, che era sugli ottanta e oltre, per averlo concepito tardi, a quasi quaranta. Con Tita, vedova o separata, era suo figlio Giuliano, dichiarato al fisco come “atratto” (1427), ossia storpio. Più che dal celibato di Donatello, o dal suo non aver avuto figli, o dall’aspetto delle sue opere, le sue tendenze omosessuali si ricavano attendibilmente da una discreta ma puntuale tradizione letteraria che, da Poliziano a Paolo Giovio, ne fa presupposto scontato di una materia narrativa o proverbiale divertita e bonaria.

Dalla sezione Gli esordi (Laura Cavazzini, pagg. 108-111)

La precoce frequentazione di Ghiberti, il quale rappresentava a Firenze il fronte di dialogo più aggiornato con l’avanguardia del Gotico internazionale che da Parigi si propagava in tutta Europa, lasciò in Donatello una traccia profonda. Essa emerge nelle prime opere realizzate per la Cattedrale [...] In ognuna di queste sculture, tuttavia, l’espressività stereotipa dei personaggi ghibertiani è soppiantata da un inedito temperamento emotivo, mentre le simmetrie rigorose care a Lorenzo subiscono scarti improvvisi e inattese inversioni di rotta. [...]
Negli anni in cui consolidava le sue abilità di orafo all’ombra di Ghiberti […], entrò prepotentemente nella vita di Donatello Filippo Brunelleschi. Ne nacque un’amicizia che, come tutte quelle sperequate per età (Brunelleschi aveva quasi dieci anni in più), fu cruciale per la crescita intellettuale di Donato. Benché nella bottega di Ghiberti non mancassero i reperti archeologici e la storia dell’arte greca e romana raccontata da Plinio il Vecchio fosse cosa nota, fu Filippo a instillargli la passione per il mondo classico e a indicargli nell’esempio degli antichi la fonte di ispirazione non per singole, colte citazioni, ma per un naturalismo organico e nuovo. 
È alla luce di questa amicizia e del dialogo intellettuale che la sosteneva che andrà inteso il confronto tra i due Crocifissi lignei intagliati da Donato e Filippo rispettivamente per le chiese fiorentine di Santa Croce e di Santa Maria Novella. Il disappunto di Brunelleschi che, stando al racconto di Vasari, rimproverò il giovane collega di “aver messo un contadino in croce”, non era probabilmente mosso dai tratti ancora gotici (e ghibertiani) del disegno del perizoma, bensì dall’interpretazione dolente e dal naturalismo sentimentale (tutti donatelliani) del volto tumefatto di Cristo, degli occhi schiusi, della bocca spirante tra le labbra gonfie, dei capelli rappresi in ciocche madide. Vasari racconta ancora che Donatello, toccato da quel rimprovero, sfidò l’amico a scolpire un Crocifisso migliore del suo. Filippo rispose con un’opera di un impeccabile naturalismo da scienziato, in cui l’articolazione delle ossa e dei muscoli è resa con una verosimiglianza anatomica che vuole confrontarsi direttamente con Fidia e con Prassitele. [...] 
Donatello finì per ammettere la sconfitta, e nelle opere immediatamente successive è evidente lo sforzo di lasciarsi alle spalle il Crocifisso di Santa Croce, sostituendo al fluido e innaturale panneggio di matrice gotica stoffe che si rapprendono, si insaccano, aderiscono ai corpi sottostanti come fossero umide, dando vita a un chiaroscuro complesso e articolato. Se abbandonare i ritmi gotici appresi nella bottega di Ghiberti non gli costò fatica, Donato non volle però rinunciare mai alla personale interpretazione della verità di natura in chiave sentimentale, con cui fu in grado di dar vita ed emozione anche ai modelli resuscitati dall’antichità classica.

Dalla sezione Dieci anni a Padova: il Rinascimento tra la Pianura Padana e l’Adriatico (Aldo Galli p. 281)

[...] La circolazione delle idee donatelliane nell’Italia settentrionale non passò solo per il tramite dei bronzi monumentali. Dalla bottega padovana del maestro, costantemente assistito dai suoi giovani – giunti con lui dalla Toscana o aggregati in loco –, uscirono disegni, modelli in creta, piccoli bronzi, rilievi devozionali replicabili in terracotta e in stucco. È anche grazie a questa produzione, minore per dimensioni ma sempre altissima nella fantasia, che la pittura e la scultura del Nord dismisero d’un tratto le morbide cadenze tardogotiche caricandosi di un’inedita forza plastica, di una drammaticità, di una grinta narrativa e di un’articolazione spaziale del tutto nuove. Il soggiorno a Padova – transitando o meno per l’ambigua bottega di Francesco Squarcione – divenne presto esperienza incontournable per chiunque volesse tenersi al passo coi tempi, che giungesse dal profondo della Pianura Padana o dalla Dalmazia, dal Friuli o dalle Marche. Accanto alle decine di nomi documentati in città ve ne sono altrettanti per cui a parlare è l’evidenza dello stile, come Carlo Crivelli, Michele Pannonio o Vincenzo Foppa [...]. 

Dalla scheda del San Giorgio; Firenze, Museo Nazionale del Bargello (Aldo Galli, p. 348)

È questa, da sempre, l’opera più popolare di Donatello: un primato che solo in età contemporanea il David bronzeo ha potuto insidiare. Un’energia compressa vibra in tutta la figura, risalendo dal piede - che travalica il limite della base e quasi ne scende - fino allo sguardo obliquo lanciato oltre lo spettatore, d’un malinconico corruccio che lascia affiorare la vita interiore del guerriero. Riaffrontando a distanza di qualche anno dal David marmoreo una figura di giovane eroe dal bel viso regolare e piantato a gambe larghe, Donatello dimostra nel modo più eloquente quanto rapida e intensa sia stata la sua crescita. Nella predella poi, per la prima volta, si dissolve la barriera fin lì invalicabile dello sfondo e il rilievo si spalanca sull’orizzonte, dove il nostro sguardo, guidato dallo scorcio delle arcate sulla destra, è libero di spingersi sino ai crinali delle colline alberate, alle nuvole del cielo, quasi solo graffite sul marmo. Un punto di svolta per la storia della scultura.
[...]. La pagina felicissima, anche lessicalmente, dedicata all’opera da Giorgio Vasari ne ha poi determinato il destino critico una volta per tutte: «una figura di San Giorgio armato vivissima e fierissima, nella testa della quale si conosce la bellezza nella gioventù, l’animo et il valore nelle armi, una vivacità fieramente terribile et un maraviglioso gesto di muoversi dentro a quel sasso». Esaltato nel Cinquecento, quando il dibattito artistico lo sentiva ancora pienamente attuale, oggetto di una precocissima monografia (Bocchi 1584), il San Giorgio non ha mai visto appannata la propria fama, rischiando semmai d’essere talora sommerso dalla retorica.

Per gentile concessione della casa editrice Marsilio