Immagine tratta dalla copertina del libro

In libreria

L'ARTE DI COLLEZIONARE MOSCHE

di Fredrik Sjöberg

20 dicembre 2016
Versione stampabile

Fredrik Sjöberg è scrittore, entomologo, collezionista e giornalista culturale svedese. L’arte di collezionare mosche, caso editoriale in tutta Europa, è stato nominato dal The Times «Nature Book of the Year».

La traduzione dallo svedese e la postfazione del libro sono di Fulvio Ferrari, professore ordinario presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento. 

Dalla copertina del libro
«Nessuna persona sensata si interessa alle mosche», e soprattutto, ahimè, non le ragazze. Ma sono questi screditati insetti ad aver cambiato la vita di Fredrik Sjöberg, o meglio, la curiosa famiglia dei sirfidi, che abbondano nell’idilliaca isoletta svedese dove si è trasferito e di cui è uno dei maggiori esperti e collezionisti. E sono loro il suo ironico punto di partenza per osservare la vita da un’altra ottica, l’alfabeto di una lingua nuova per leggere il paesaggio, e forse il mondo. La lentezza; la poesia dell’attesa; la sicurezza del vivere entro i confini ristretti di un’isola perché «si dorme meglio con la porta chiusa»; il collezionismo come bisogno di controllare il caos dell’esistenza; gli altri grandi irrequieti, Chatwin, Lawrence, Kundera, affascinati dalla catalogazione: attraverso divagazioni, storie, aneddoti si resta presi nella rete di un’incantata affabulazione, fino a scoprire che «tutti nell’intimo siamo collezionisti di mosche, anche se non ce ne siamo mai accorti». Un inclassificabile romanzo-conversazione in cui all’esperienza dell’autore fa da controcanto l’avventurosa vita di René Malaise, geniale inventore della trappola che ha permesso di scoprire migliaia di nuove specie: un don Chisciotte alla Balzac, esploratore in Kamčatka, nella Birmania dei tagliatori di teste, in luoghi selvaggi che erano allora chiazze bianche sulle carte geografiche, illustre scienziato e teorico visionario dell’esistenza di Atlantide. L’uomo degli eccessi che diventa per Sjöberg il suo inafferrabile alter ego. Sarà poi così vero, allora, che la felicità è a portata di mano, che basta contemplare il proprio giardino, che l’arte di porsi limiti è forse il suo segreto? 

pp. 120 – 122
C’era una volta un albero gigantesco che cresceva proprio a Ronneby, tra tutti i posti del mondo, e che già Linneo nei suoi scritti chiamava l’albero delle mosche. Ma già molto prima di lui si chiamava così. La sua storia può spiegare perché continuiamo a dare la caccia a certe mosche senza mai riuscire a vederle. Gli esperti le chiamano «animali favolosi», con un termine tecnico ridicolo come il cinguettio degli innamorati tolto dal suo contesto.
Parliamo dunque di sirfidi quasi leggendari – grandi e belli – le cui larve trascorrono i loro giorni in cavità piene d’acqua tra le chiome degli alberi. Si può passare la vita a cercarle, tanto sono rare.
L’albero delle mosche era uno degli alberi più grandi mai cresciuti in Svezia, un pioppo nero le cui origini risalivano al Medioevo. Visse fino al 1884, simile a una nube cumuliforme di color grigioverde, accanto al municipio, sulla riva del fiume Ronneby. Il tronco aveva una circonferenza di undici metri. La circonferenza del ramo più grosso ne misurava cinque buoni. Un fusto di petrolio ha una circonferenza di due metri. Ce lo possiamo immaginare. Quest’albero era così immenso che gli abitanti di Ronneby se ne vantavano come di una meraviglia di dimensioni orientali, di quelle che finiscono sulle cartoline da spedire in tutto il mondo. Non c’era nessuno nei dintorni, e anche a grandi distanze, che non sapesse che quel gigante si chiamava l’albero delle mosche. Era un intero ecosistema. All’interno di quell’esplosione di rami e foglie, dove vivevano interi stormi di gracchi, c’era per esempio una forcella alla cui base fu trovata quella che venne poi chiamata una sorgente. Sicuramente brulicava di larve di «animali favolosi», anche se non è questa la ragione per cui all’albero venne dato quel nome. La ragione è che ogni autunno, soprattutto dopo estati molto piovose, l’ampia chioma si trasformava letteralmente in una nuvola… di afidi in volo. Evidentemente una o più specie di afidi produttori di galle viveva sull’albero, secondo le testimonianze in piccole escrescenze sui piccioli delle foglie e, poiché lo spettacolo era così grandioso e gli afidi assurdamente numerosi, diventò un evento ricorrente anno dopo anno per secoli, sufficientemente strano e agghiacciante da metterlo sulle cartoline. 
Sfortunatamente un ramo si spezzò durante un acquazzone nel 1882, e qualche ignorante impiegato comunale decise che l’albero era di ostacolo al progresso. Chissà poi quale progresso. Allo stesso tempo si diffuse nella regione la voce che il tronco era marcio fino al midollo e che l’unica cosa da fare era abbatterlo. E così fu deciso. Vennero affilate le seghe più lunghe. Una magra consolazione, dal fresco sapore di gioia maligna, è che avevano torto sul tronco marcio, in realtà si rivelò sanissimo e abbatterlo fu tutt’altro che una passeggiata. Sembrava un’impresa impossibile. L’albero delle mosche resisteva a tutto. Tranne che alla dinamite. Fu così che la storia ebbe fine. Si fece saltare l’albero con la dinamite. Per il progresso. Ah, già. 
Ci sono insetti che si mettono così poco in mostra in tutte le fasi della loro esistenza che se ne vede solo qualche raro esemplare nel corso di un secolo. Può darsi che qualche sirfide appartenga a questa categoria. Un’altra possibilità è che qui queste specie non esistano più, perché gli alberi davvero favolosi sono scomparsi, o comunque ce ne sono molto meno di prima.

Per gentile concessione di Iperborea.