Particolare dalla copertina del libro

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IL LAVORO COME PROFESSIONE

di Tiziana Faitini

27 giugno 2017
Versione stampabile

Dalla quarta di copertina
Il volume presenta un’indagine storica sul concetto di professione e sul discorso dell’etica professionale, sviluppata in un variegato orizzonte di fonti che spazia dal corpus giustinianeo all’esegesi cristiana antica e medievale, dalla letteratura de officiis alla trattatistica comportamentale barocca, dai galatei professionali ai codici deontologici novecenteschi. Nel fare ciò, la ricostruzione proposta — che muove non sul versante weberiano del Beruf, ma su quello latino della professio — intende riflettere su alcune condizioni che hanno dato forma alla nostra esperienza di professionalità e, per suo tramite, hanno contribuito a scolpire il nostro paradigma di inclusione sociopolitica.

Tiziana Faitini è collaboratrice di ricerca presso la Scuola di Studi internazionali.

Dalla Premessa (pp. 48-50)
Quanto sin qui tratteggiato converge a comporre la dialettica insoluta che sembra animare il divenire storico del lavoro — del suo concetto come della sua prassi. D’un lato il suo versante emancipativo: la graduale rivalutazione della vita activa, nel lungo processo che dal lavoro del monaco benedettino del VI secolo si dipana via via fino alla nascita delle corporazioni medievali e allo sviluppo della mercatura fiorentina per giungere alla rivoluzione borghese, è altresì la storia del tramontare di un’organizzazione sociale basata su una incolmabile differenza di status — pure ontologicamente fondato, almeno in alcuni passaggi — e l’affidamento del destino di ciascuno, con la relativa posizione sociopolitica, alla propria capacità di fare. Dall’altro, ed in parallelo, si realizza l’altrettanto graduale imposizione del modello–lavoro ad ogni attività e l’astrazione dell’uomo al suo fare di corpo o mente considerato solo in relazione al risvolto economico–acquisitivo, ovvero alla sua scambiabilità: astrazione che cela in sé l’«oggettività spettrale» dell’agire umano concepito come «gelatina di lavoro umano indifferenziato» di cui parla il Capitale marxiano, e in cui non cessa, ai tempi del neoliberalismo, di giocarsi la produzione dell’uomo e la plasmazione di soggettività. La storia del lavoro è sostanziata da questa dialettica che non conosce superamento.
Ora, cosa ha a che fare tutto ciò con l’etica professionale — un discorso che ad un primo sguardo, come si metterà in luce fin da subito, si presenta come tecnica governamentale, a tratti evidentemente ideologica, quando non riposa sulla concezione un poco nostalgica ed idealizzante di un homo faber condannato ad essere libero? Perché parlare di etica professionale? Ci accingiamo a esplorare la storia di quella che abbiamo definito come l’esperienza della professionalità focalizzando sulla problematizzazione morale ad essa connessa: ciò equivale ad aprire un’indagine sull’articolarsi storico del discorso dell’etica professionale e sul suo emergere nella forma a noi più familiare sul finire del Settecento, che ci porterà poi, specie grazie ad un’analisi delle radici latine del concetto di professione, a rinvenire assai più indietro nel tempo alcune delle condizioni di possibilità di tale emergere.
Una siffatta indagine si giustifica nella convinzione che essa possa illuminare da una prospettiva critica meno usuale il paradigma che fonda l’inclusione sociopolitica sul lavoro inteso come attività economico-acquisitiva. Aprire una prospettiva critica su questo paradigma sembra tanto più rilevante quanto più se ne consideri la singolarità storica e la difficoltà in cui esso oggi incorre, singolarità e difficoltà che si vorrebbe aver nelle pagine precedenti sufficientemente evocato; ed ancor più rilevante sembra se, insieme a questo, si vuol prendere sul serio la difficoltà di pensare e praticare un modello alternativo di fronte al fatto che la precarietà contrattuale diviene precarietà esistenziale e l’inoccupazione si fa inesistenza: personale, sociale, politica. Ovvero, se non si vuole, nella fretta del gesto cinico, liquidare la dialettica tra emancipazione e astrazione: dialettica da cui l’etica professionale stessa è attraversata e sostanziata e che potrebbe forse, se opportunamente ripensata e praticata, contribuire a tenere aperta — offrendo il campo in cui tale apertura potrebbe mantenersi e una diversa soggettivazione darsi.
Ragionare sull’esperienza della professionalità si tradurrà per noi in larga misura nell’esplorare l’evoluzione di quel concetto di professione in cui la problematizzazione morale relativa a tale esperienza ha inevitabile riferimento: approccio di indagine certo parziale e finanche preliminare, che nondimeno sembra in grado di contribuire all’intelligibilità storica della professionalità. Per questa via si tratterà, in fondo, di ripercorrere la storia già nota e poc’anzi richiamata dell’affermarsi della logica astratta muovendo sulle tracce della professione e non — su una pista più battuta e comunque via via meno distinta — del lavoro. Assai più che a voler individuare continuità persistenti, muovere di qui equivale piuttosto, ci pare, a storicizzare a pieno il termine professione — evitando l’immediata sovrapposizione con i significati a noi più familiari e riconoscendovi, con l’attenzione alle radici latine, una certa specificità rispetto alla vicenda del tedesco Beruf per come è stata ricostruita da Max Weber — e consente di percepire in che modo ad esso siano andati associandosi, sul piano concettuale come su quello pratico, l’inclusione di ciascuno all’interno dell’ordine — sociopolitico e teologico prima che economico — e l’esercizio regolato di una condotta di vita. Una duplice associazione, questa, che, come le pagine che seguono proveranno a mostrare, appare di non trascurabile interesse per illuminare la costellazione attuale di significato, nella misura in cui partecipa a spiegare il rilievo attribuito all’attività economico-acquisitiva tanto sul piano etico quanto su quello politico-sociale, portando così alla luce alcune condizioni che hanno reso possibile quell’esperienza di professionalità che non possiamo non fare nostra.
Al tempo stesso, concentrarsi sul concetto di professione permetterà — per la sola via indiretta di quello che potrebbe definirsi, di nuovo, un approccio preliminare — di chiarirne rapporti di prossimità e distanza rispetto al concetto di lavoro in senso lato e di porre in evidenza, una volta di più, l’astrazione che sostanzia la nozione di lavoro come “partecipazione organizzata e retribuita alla produzione di beni e di servizi”. Se lavoro e professione ora si avviano a coincidere — stavolta, diversamente da quel che poteva osservare la Arendt nel pieno del fordismo, più sul fronte della creatività della professione che su quello della necessità del lavoro, ovvero, quanto meno nelle società a capitalismo maturo, nel verso di un lavoro che si fa professione —, un’attenzione alla distinzione qualitativa dell’agire umano nella sua concreta multiformità, sottratta alla dimensione economico–acquisitiva e consapevole dell’univocità di corpo e mente, è un primo muoversi agonistico: il che significa pure chinarsi a sfaccettare l’azione strumentale e distinguere, in essa, tra le nature delle diverse relazioni manipolative, a sé, intersoggettive da cui sono costituite le molteplici attività con cui strumentalmente ci si guadagna da vivere.