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In libreria

REBUS IMMIGRAZIONE

di Giuseppe Sciortino

13 luglio 2017
Versione stampabile

Il dibattito sull’immigrazione è il paradiso dei retori e dei velleitari: c’è chi invoca principi impraticabili e chi soluzioni odiose e irrealistiche. Questo libro invece parla del mondo reale. Da almeno cinque secoli le migrazioni sono una costante della storia europea: dalla pace di Augusta ai trattati di Schengen e Dublino è sempre stato necessario gestire la tensione fra il diritto di emigrare e il diritto degli stati riceventi di decidere chi ammettere e a quali condizioni. Non è mai stato facile, non lo è oggi. Un dato strutturale da affrontare non con buoni (o cattivi) sentimenti, ma con competenza e buona amministrazione.

Giuseppe Sciortino insegna Mutamento sociale e Sociologia dello sviluppo internazionale presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale dell'Università di Trento.

Dall'Introduzione (pp. 7 - 9)
La colpa, se di colpa si può parlare, è antica almeno quanto il trattato di Augusta. Sovrani e ambasciatori, lì convenuti nel settembre del 1555, erano alle prese coi problemi generati dalla riforma protestante. Li affrontarono stabilendo una serie di principi ancora validi. Riconobbero ai sovrani il diritto di intervenire non solo sulle tasche, ma anche sulle teste, dei loro sudditi per renderli simili a loro (ius reformandi). Stabilirono anche – primo nucleo della libertà di coscienza (e di tutte le libertà civili che da questa discendono) – che chi non voleva essere così riformato aveva il diritto di muoversi verso nuove terre (ius emigrandi). I sudditi che volevano continuare a praticare una confessione cristiana diversa da quella del proprio principe potevano, per un periodo transitorio, lasciare il suo territorio senza perdere proprietà e onore. Se avevano obblighi servili, avrebbero dovuto versare al proprio ex signore soltanto una compensazione «ragionevole».
Circa un secolo (e i milioni di morti della guerra dei Trent’anni) dopo, il trattato di Osnabrück (1648), tassello fondamentale della pace di Westfalia, ratificò definitivamente questa impostazione. I firmatari riconobbero il diritto del sovrano di far valere la propria volontà nello spazio pubblico, imponendosi sui sudditi recalcitranti. Le minoranze avrebbero avuto la possibilità di praticare la propria religione (cristiana) in privato impegnandosi a non fare troppo chiasso. Altrimenti, avevano il diritto di emigrare. A Osnabrück pensavano che solo riconoscendo questo diritto d’uscita si sarebbe evitato che i sovrani ci andassero troppo pesanti con lo ius reformandi.
Qualche secolo dopo, il lascito più importante della pace di Augusta e di Westfalia risiede in quello che i dignitari non scrissero. A nessuno di loro passò nemmeno per la testa di discutere di uno ius immigrandi. I principi dovevano rispettare la decisione dei sudditi che decidevano di emigrare, ma non erano tenuti ad accettare i sudditi che abbandonavano i territori degli altri. Potevano farlo, ma non erano tenuti a farlo. Non lo sapevano, ma avevano appena creato il mondo in cui ancora viviamo.

Dal Capitolo I - I dignitari di Augusta e noi (pp. 11 - 17)
Da Augusta e Osnabrück, molta acqua è passata sotto i ponti. L’incongruenza tra l’esistenza di un diritto a uscire e l’assenza di un diritto ad entrare non è mai stata sanata. Si prenda l’articolo 13 della Dichiarazione universale dei diritti umani approvata nel 1948 dalle Nazioni Unite. È il documento che elenca i diritti che dovrebbero essere garantiti a tutti noi come sudditi, ora chiamati cittadini, di uno stato membro dell’ONU.
L’articolo 13 dichiara che ogni essere umano ha diritto a lasciare il proprio paese, nonché di farvi ritorno se lo desidera. Non è davvero poca cosa. Sino a un quarto di secolo fa, una buona parte della popolazione europea, ad est della cortina di ferro, era obbligata a chiedere il permesso per recarsi all’estero. Per non parlare delle popolazioni coloniali, alle quali era generalmente vietato ogni movimento spontaneo. Ancora oggi, una parte non trascurabile dell’umanità incontra molti problemi non solo per uscire dal proprio paese, ma anche soltanto per cambiare luogo di residenza. Possiamo quindi essere grati agli autori della Dichiarazione universale dei diritti umani, e ai dignitari di Augusta e Osnabrück, per averci dato un diritto importante.
Resta il fatto, tuttavia, che la Dichiarazione – esattamente come i trattati di Augusta e Osnabrück – non prevede alcun diritto a fare ingresso o risiedere sul territorio di un altro stato. Uno degli attributi più importanti della sovranità degli stati è proprio il diritto di determinare la composizione della propria popolazione, decidendo discrezionalmente chi ammettere e a quali condizioni farlo. Uscire è un diritto, entrare è una concessione. Questa asimmetria è la struttura di base che determina il sistema migratorio mondiale e che con ogni probabilità continuerà a farlo anche in futuro.
Leggendo la Dichiarazione delle Nazioni Unite – nonché una miriade di trattati internazionali e di norme presenti nelle costituzioni degli stati anche solo minimamente liberali – è facile tuttavia accorgersi che alcune cose sono cambiate, contribuendo a complicare ulteriormente il quadro.
La prima differenza è che oggi lo ius emigrandi è formulato come un diritto dell’individuo. Vale (naturalmente solo in linea di principio) per tutti e ovunque. La pace di Augusta garantiva, e solo per un certo periodo, questo diritto ai soli sudditi cattolici e luterani. Il trattato di Osnabrück estese tale diritto ai membri delle altre confessioni cristiane (ma non, per esempio, agli ebrei). Era un diritto valido, in alcuni momenti, solo per alcune categorie, enumerate in modo più o meno preciso. Ed è stato così sino a pochi decenni fa: non esistevano «rifugiati». Esistevano ugonotti, esuli polacchi, apolidi russi, profughi armeni o assiro-caldei, ebrei che fuggivano dal nazismo. Senza dimenticare che, se non si aveva la pelle bianca, il problema non veniva generalmente neanche preso in considerazione. L’idea che la protezione vada concessa indipendentemente dall’intensità della compassione che proviamo per le vittime (e della condivisione, succede anche questo, per gli obiettivi dei carnefici) è assai recente.
Questa timida crescita di una concezione universalistica si ritrova persino nelle politiche migratorie riservate a coloro che perseguitati non sono. Sino a pochi decenni fa, veniva dato per scontato che ogni decisione sull’ingresso e permanenza sul territorio di un migrante potesse (e dovesse) tenere in conto il colore della pelle, la religione praticata e persino la più lontana linea di discendenza. Solo da pochi decenni pensiamo, con qualche difficoltà, che le decisioni sull’ingresso e la residenza degli stranieri vadano formulate in riferimento ai diritti e doveri di un individuo astrattamente inteso.
Nel caso dei migranti, concezioni particolaristiche e universalistiche convivono nelle stesse normative. Si pensi all’attuale legge italiana sulla cittadinanza, approvata praticamente all’unanimità dai due rami del Parlamento nel recente 1992. La legge stabilisce che una goccia di sangue italiano acquisito un paio di generazioni fa conferisce un diritto alla cittadinanza della repubblica molto più forte di anni di lavoro e di vita nella penisola. Non è una legge particolarmente avanzata. Eppure, persino nel caso italiano, la visione ascrittiva non è più l’unica. La cittadinanza italiana può essere oggi acquisita da individui di fede islamica (cosa del tutto inconcepibile durante il Regno d’Italia), da qualcuno che ha un genitore africano (cosa negata a molti italo-somali e italo-eritrei, ancora in periodo repubblicano) e persino dai figli delle donne italiane che hanno sposato uno straniero. In altre parole, accanto ai criteri particolaristici sono oggi apparsi criteri universalistici. Non solo: il permanere dei primi è divenuto possibile solo a patto che questi assumano quantomeno l’aspetto esteriore dei secondi.
Una seconda, importante, differenza tra la nostra situazione e quella dei dignitari di Augusta è che oggi parliamo di migranti e rifugiati come di due specie distinte. L’asimmetria tra uscite e ingressi implicita nell’articolo 13 è integrata da un regime speciale per i rifugiati, strategicamente collocato all’art. 14 della Dichiarazione universale dei diritti umani. Questo recita «Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere asilo dalle persecuzioni in altri paesi». Accanto allo ius emigrandi (cercare) è apparso quindi – nel caso dei perseguitati (e solo per loro) – anche una tenue forma di ius immigrandi (godere). In altre parole, gli stati hanno il diritto di rifiutare discrezionalmente l’ingresso ai migranti, ma non a quelli che stanno fuggendo da una persecuzione. Si tratta di un riconoscimento tardivo (ma non affatto scontato, vista l’ostilità riservata all’introduzione di questo principio dai paesi comunisti) per i milioni di europei che solo pochi anni prima erano morti cercando di fuggire dallo ius reformandi dei regimi fascisti e comunisti (i milioni di sudditi coloniali che della fuga non avevano avuto neanche la speranza non erano all’epoca minimamente considerati).
Regolare in modo diverso la mobilità di migranti e rifugiati implica la coesistenza di criteri assai diversi. Occorre in primo luogo distinguere, e non è facile, tra coloro che fuggono a causa di una «persecuzione» da coloro che cercano invece condizioni di vita anche solo minimamente decenti. E cosa vuol dire essere «perseguitati»? Dove va tracciato il confine tra le «pratiche nefaste», che pur tuttavia compongono ampia parte di ciò che chiamiamo politica, e «l’esercizio volontario di una straordinaria malevolenza nei confronti di alcune specifiche persone o gruppi»? Quanto severa e sistematica deve essere tale malevolenza per attivare un obbligo d’accoglienza nei paesi riceventi? Sono problemi complicati, coi quali il nostro paese ha dovuto negli ultimi anni cominciare a fare i conti.

Per gentile concessione della casa editrice il Mulino.