Particolare dalla copertina

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PRIGIONIERI DI UNA DIAGNOSI

di Albertina Pretto

8 marzo 2018
Versione stampabile

Dalla quarta di copertina
Negli ultimi decenni, l’evolversi delle normative ha favorito l’inclusione sociale delle persone disabili, in particolare negli ambiti della scuola e del lavoro. Tuttavia queste persone si trovano ancora oggi in una condizione piuttosto critica: raggiungono livelli di istruzione inferiori rispetto alla popolazione normodotata e affrontano maggiori difficoltà nell’ottenere posizioni lavorative che, sovente, richiedono un basso profilo professionale e non prevedono sbocchi di carriera. 
Quali sono le ragioni di tale disparità? 
Questo volume, che nasce da una ricerca empirica, intende approfondire queste tematiche da un punto di vista sociologico.

“Cosa vogliono i disabili? Una vita, come la vogliono gli altri”

Albertina Pretto è ricercatrice del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento.

Per una introduzione al tema della disabilità (pp. 5 - 10)

Il volume nasce da un percorso di ricerca sociologica che mira ad approfondire il tema della disabilità da un punto di vista empirico, ossia cercando di far emergere le problematiche delle persone disabili dai loro stessi vissuti.
Usando il termine problematiche, non ci si vuole riferire, ad esempio, alle difficoltà che un cieco o una persona su sedia a rotelle incontrano nel muoversi. Certo, anche questo aspetto può essere più o meno complicato, ma difficoltà ancora maggiori si collegano al fatto che la disabilità, ancora oggi, è un mondo piuttosto sconosciuto al quale si associano stereotipi e pregiudizi. La lente prevalente attraverso la quale è vista, deriva da un’ottica di tipo medico e/o socio-assistenziale, fondata su aspetti legati alla salute e a politiche di welfare. Nonostante quest’ottica sia utile e legittima, non è però sufficiente per aiutarci a comprendere questa realtà.
Nel corso di una lezione all’università, ho chiesto ai miei studenti: ”Secondo voi, cosa vogliono i disabili?” e una studentessa ha immediatamente risposto con tono compassionevole: ”Compagnia!”, così come si suole dire pensando all’anziana nonna allettata che non sempre abbiamo voglia di andare a trovare. Ma la disabilità è altro, e ancora oggi non la conosciamo abbastanza.
Una curiosa e a volte divertente rubrica della Settimana Enigmistica s’intitola Forse non tutti sanno che…; meno divertenti ma probabilmente più importanti sono tutte le cose che nella stessa sociologia meritano di essere approfondite sul tema della disabilità e ancora molti sono gli aspetti di quest’ultima poco noti alla società più ampia. Per esempio: perché li chiamiamo disabili? 
Forse non tutti sanno che questo termine è entrato nell’uso comune in tempi davvero recenti; come afferma Falloppa (2013), vale la pena di ricordare che è soltanto dai primi anni ’70 che parole come spastico o mongoloide, deficiente o infelice, orbo o storpio - fino ad allora usati senza troppe restrizioni per indicare persone affette da deficit fisici o psichici - sono avvertite come inadeguate rispetto all’aggiornamento del dibattito politico, scientifico e sociale, e hanno quindi progressivamente lasciato il posto, prima, al termine handicappato o portatore di handicap e, successivamente, a disabile e diversamente abile.
Se ci attenessimo strettamente all’etimologia della parola, il termine portatore di handicap non sarebbe poi così inadeguato: il verbo inglese to handicap – attestato già nel XVIII secolo - deriverebbe dal nome di un gioco d’azzardo, diffuso nel XVII secolo, che consisteva nel celare con le mani, all’interno di un berretto, la posta in gioco (di qui hand in cap). Il termine è stato poi acquisito dal gergo delle corse di cavalli, ove si dava al cavallo più forte uno svantaggio - un handicap appunto - al fine di rendere più equilibrata la gara. In italiano, handicap sarebbe stato mutuato dall’inglese proprio come tecnicismo ippico, e le sue prime attestazioni sarebbero databili alla fine dell’Ottocento. Nei primi decenni del Novecento, dal linguaggio sportivo la voce sarebbe passata ad altri ambiti, tra cui quello medico-sociale, con significati non sempre precisati esattamente ma comunque basati sull’idea di svantaggio, di incapacità fisica o mentale. Nelle loro accezioni medico-sociali handicap e handicappato sono stati avvertiti come legittimi (e semanticamente neutri) almeno fino agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso. Infatti, la Legge quadro 104 del 1992 (che meglio vedremo oltre) si proponeva di normare “l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”. In quello stesso periodo, il termine handicappato, entrato ormai a pieno titolo nell’italiano di uso comune, era però usato anche con connotazioni non sempre gradevoli e si preferiva il più politicamente corretto portatore di handicap. Come accennato sopra, se prendiamo questo termine esattamente per quello che significa, ossia portatore di uno svantaggio, di un ostacolo, possiamo dire che - in sé - non è poi così inadeguato. Purtroppo, non sempre le parole sono usate semplicemente per il significato che hanno, e ulteriori accezioni vengono loro attribuite.
Durante gli anni ’90, quando nel nostro paese si accende il dibattito sul politicamente corretto (Baroncelli, 1996; Bonvecchio e Risé, 1998), si assiste a un avvicendamento tra le coppie handicap/handicappato e disabilità/disabile. Il passaggio è riscontrabile anche a livello giuridico e, in particolare, nel testo della Legge 68 del 1999 sulle “Norme per il diritto al lavoro dei disabili”. Anche in questo caso, il termine disabile - peraltro già impiegato dall’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) negli anni ’80 - deriva dall’inglese disabled. A questa parola si è poi affiancata l’espressione diversamente abile, sempre in conseguenza degli sviluppi del politicamente corretto (Falloppa, 2013). Ebbene, ma che bisogno c’è di parlare tanto di queste persone? 
Forse non tutti sanno che i disabili sono davvero ‘tante persone’. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), circa il 15% della popolazione mondiale - si tratta di oltre un miliardo di persone - vive con una forma di limitazione funzionale: tale dato è in costante crescita non solo a causa dell’invecchiamento della popolazione ma anche perché continuano ad aumentare le malattie croniche che colpiscono persone di ogni età. Inoltre, le persone disabili sperimentano in molti casi condizioni di vita più negative rispetto al resto della popolazione: difficoltà di accesso alle cure, istruzione inferiore, disoccupazione e alti tassi di povertà (OMS, 2011). Si stima che in Europa i disabili siano più di 80 milioni (EDF, 2016) e, secondo l’ISTAT (2015) in Italia sarebbero circa 13 milioni le persone che hanno limitazioni funzionali, invalidità o cronicità gravi. 
Ѐ impossibile non notare come il dato italiano appena riportato sembri sproporzionato rispetto al dato europeo e, infatti, nel considerare i dati sulla disabilità una precisazione è d’obbligo. Come vedremo anche oltre, reperire informazioni statistiche relative alle persone disabili è un’impresa alquanto ardua. Tale problematicità rispecchia in primo luogo la difficoltà di inquadrare in modo univoco un fenomeno sociale estremamente eterogeneo. In secondo luogo, a ciò si affianca la mancanza di una raccolta sistematica di dati: a livello mondiale vi è un unico report statistico risalente al 2011. A livello europeo, i dati disponibili non sempre includono tutti i Paesi afferenti all’Unione Europea (UE) o tutte le variabili (Disability Eurostat, 2011). Sia a livello mondiale che europeo i dati presentano dunque molteplici lacune e difficoltà di comparazione. 
Nel caso dell’Italia la situazione è lievemente migliore in quanto, nei recenti decenni, sono stati diffusi alcuni report sulla disabilità ma, anche questi ultimi, sono spesso incomparabili tra loro a causa delle diverse definizioni attribuite alla condizione di disabilità e dei differenti metodi di rilevazione e di misurazione statistica. Ma perché è così difficile definire la disabilità?
Forse non tutti sanno che il concetto di disabilità è anche frutto di una costruzione sociale: i segni e/o gli effetti di una malattia, di una menomazione, di una limitazione fisica o psichica, sono valutati in modo diverso anche in base alla cultura e alla società di riferimento (Perrotta, 2009a).  Inoltre una stessa limitazione, ad esempio quella visiva, può presentarsi in diversi individui con forme diverse e diverse conseguenze. Pertanto è estremamente complicato individuare in termini assoluti quali sono le condizioni e le situazioni attraverso le quali a un soggetto può essere assegnato lo status di disabile, status che a sua volta presenta differenti livelli. 
La disabilità è un fenomeno così eterogeneo che gli stessi tentativi di classificazione da parte di enti nazionali e sovranazionali continuano a variare, evolversi e aggiornarsi, cercando di trovare, in primo luogo, un linguaggio comune entro il quale far rientrare le molteplici declinazioni che si possono attribuire alla disabilità. Lo sforzo più recente in tal senso ha dato vita a l’International Classification of Functioning, Disability and Health  (ICF) che, elaborata nel 2001 dall’OMS, è già in fase di revisione e aggiornamento . L’ICF - che meglio vedremo nel primo capitolo - è uno strumento di classificazione e di descrizione della salute e dei possibili e differenti stati a essa associati, i cui scopi principali sono: offrire un modello di riferimento per la comprensione e lo studio della salute e della disabilità; stabilire un linguaggio univoco per migliorare la comunicazione tra i diversi utilizzatori (siano essi operatori sanitari, ricercatori, politici e popolazione, incluse le persone con disabilità); migliorare il confronto fra i dati raccolti nei 191 Paesi membri dell’OMS che aderiscono all’ICF. Facendo riferimento a quest’ultima come modello internazionale al quale attenersi, ogni nazione può elaborare strumenti più mirati che possono tener conto dei molteplici rapporti che intercorrono tra corpo, mente, ambiente, contesti e cultura. Su questa base, ogni Paese afferente all’OMS può creare e usare un proprio strumento di valutazione che rispecchi i vari indicatori, descrittori, codici e qualificatori proposto nell’ICF: in Italia (ma non solo) questo strumento è la diagnosi funzionale (Ianes, 2004). Quest’ultima è interdisciplinare e considera il soggetto e il suo funzionamento in relazione al contesto di appartenenza; non è statica in quanto può essere soggetta a revisioni periodiche; si basa sulla necessità di dare risposte a specifici bisogni; tende a mettere in luce non solo le limitazioni ma anche le potenzialità della persona; suggerisce le modalità tecniche di intervento (Gaylord-Ross e Browder, 1990).
La diagnosi funzionale si applica attraverso precise disposizioni disciplinate dalla Legge 104 del 1992 ed è diventata un elemento indispensabile per l’accertamento delle condizioni di disabilità di un individuo (Zanobini e Usai, 2005). A una commissione medica operante presso le unità sanitarie locali è affidato il compito di redigere la diagnosi funzionale che rappresenta una tra le misure atte a favorire la partecipazione sociale del disabile in vari ambiti, scuola e lavoro in particolare.
Riguardo all’inserimento scolastico, è il DPR  del 24 febbraio 1994 a regolamentare la diagnosi funzionale: in base all’articolo 4, questa è strutturata per aree, al fine di rilevare il rapporto tra menomazione e una serie di aspetti specifici del soggetto disabile: 
- cognitivo (livello di sviluppo raggiunto e le capacità di integrazione delle competenze); 
- affettivo-relazionale (livello di autostima e di rapporto con gli altri); 
- linguistico (livello di comprensione, produzione e uso di linguaggi alternativi);
- sensoriale (tipo e grado di deficit con particolare riguardo alla vista, all'udito e al tatto);
- motorio-prassico (livello di motricità globale e motricità fine); 
- neuro-psicologico (memoria, attenzione e organizzazione spazio-temporale);
- autonomia personale e sociale. 
La diagnosi funzionale in età scolare  serve a comprendere quali sono le capacità compromesse dell’alunno disabile e quali quelle residue al fine di progettare programmi di sviluppo adeguati. 
In ambito lavorativo invece, la diagnosi funzionale è normata dal DPCM  del 13 gennaio del 2000 e l’attività della commissione  è finalizzata a individuare la capacità globale, attuale e potenziale della persona disabile. In particolare, devono essere valutate quelle capacità ritenute utili per lo svolgimento dell’attività lavorativa quali:
- quelle relative alle attività mentali e relazionali;
- quelle connesse al comprendere, memorizzare e trasmettere nozioni;
- informazioni inerenti la postura, la locomozione e la funzionalità degli arti;
- capacità di sopportare attività complesse, associate alla resistenza fisica;
- la sopportazione di diversi fattori ambientali, come determinate condizioni atmosferiche, o particolari fonti di luce, suoni o vibrazioni;
- la possibilità di adattamento a determinate organizzazioni lavorative in relazioni a ritmi e turni di lavoro.
Raccogliendo informazioni sulla condizione attuale - ed eventualmente basandosi anche sulla documentazione preesistente e relativa all’età scolare - la diagnosi funzionale in ambito lavorativo tende ad agevolare l’inserimento mirato del soggetto e quindi la ricerca del posto di lavoro più adatto (Filippone e Martire, 2012). 
In generale, la diagnosi funzionale dovrebbe coadiuvare medici, insegnanti, operatori sociali e altri soggetti analoghi, nell’individuare le specificità e i bisogni delle persone portatrici di handicap, al fine di supportarne il progetto di vita (Zanobini e Usai, 2005). Ma se per i disabili ci sono già queste attenzioni, perché discuterne ulteriormente? 
Forse non tutti sanno che, a causa di un insieme di costrutti tipicamente sociali, molti dei problemi che i disabili devono affrontare spesso iniziano proprio dal momento in cui la diagnosi funzionale li definisce come tali. In questo volume cercheremo di illustrarne alcuni.

Per gentile concessione di libreriauniversitaria.it.