Particolare dalla copertina del libro.

In libreria

LA DIFFERENZIAZIONE INTEGRATA

di Marco Brunazzo

23 marzo 2018
Versione stampabile

Dalla quarta di copertina
A sessant'anni dalla sua fondazione, l'esistenza dell'Unione europea è oggi messa in discussione. Il pessimismo che aleggia su di essa è la conseguenza di una delle peggiori crisi economiche dagli inizi del Novecento, delle divisioni nell'affrontare i crescenti flussi migratori e dell'ascesa del populismo. In più, l'uscita della Gran Bretagna dall'UE ha evidenziato come l'integrazione europea non sia irreversibile. Nel corso del tempo, l'UE è cresciuta per numero di paesi membri e rilevanza delle competenze acquisite. Ma è cresciuta anche la sua complessità. Questo libro si occupa di un aspetto particolare di questa complessità: quello dell'integrazione differenziata, per cui diversi stati decidono di perseguire diversi gradi di integrazione su materie differenti, e delle diverse forme che questa integrazione può assumere. Se vuole sopravvivere alla sua disintegrazione, l'UE dovrà misurarsi con la sfide della integrazione differenziata o, meglio, della differenziazione integrata.

Marco Brunazzo, già coordinatore del centro Jean Monnet, è professore del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell'Università di Trento.

Dall'introduzione (pp. 1-6)
A sessant’anni dalla sua fondazione, l’esistenza stessa dell’Unione europea (UE) è oggi messa in discussione. Dopo anni in cui gli stati europei sembravano inevitabilmente destinati ad integrarsi sempre di più, oggi l’UE sembra aver perso la sua capacità di attrazione. Non si possono contare i libri che parlano di «fine dell’Europa» (Lacoste 2016), «mezzanotte in Europa» (Moscovici 2016), ritorno delle frontiere (Foucher 2016), futuro pieno di guai (Merritt 2016; Giddens 2014), male europeo (Verhofstadt 2016). C’è anche chi saluta l’Europa con un arrivederci (Goulard 2016) o chi con un più definitivo necrologio (Gillingham 2016).
Chiaramente, il dibattito riflette il pessimismo che aleggia sull’UE dopo l’avvento di una delle peggiori crisi finanziarie, economiche e politiche dagli inizi del Novecento. Tuttavia, un certo disinteresse o, addirittura, una certa aperta ostilità nei confronti dell’UE deriva probabilmente anche dal fatto che l’UE è sempre più complessa e sempre più difficile da comprendere. Secondo una ricerca condotta dalla Commissione europea nel 2015, solamente il 54% degli europei dichiara di conoscere come funziona l’UE. Sottoposti a domande finalizzate a stimare la conoscenza oggettiva del funzionamento dell’UE, solamente il 36% degli intervistati ha risposto in modo giusto a tre domande facili e relative all’elezione diretta dei membri del Parlamento europeo, alla numerosità dei paesi membri, e alla partecipazione della Svizzera all’UE. Curiosamente, due dei tre paesi in cui gli intervistati hanno mostrato di conoscere meno l’UE sono paesi membri da molto tempo, la Francia e il Regno Unito, dove, rispettivamente, solo il 29% e il 28% degli intervistati ha dato tre risposte giuste (Commissione europea 2015).
Se l’UE rimane oggi poco intellegibile, probabilmente questo dipende dall’affermarsi di tre dinamiche diverse ma tra di loro collegate. La prima è la mancanza di un punto di approdo finale (se così si può chiamare) dell’integrazione europea. L’UE è nata senza un progetto condiviso (una finalité, direbbero i francesi) ma come un metodo di lavoro: la condivisione dei poteri su questioni relative alla gestione del carbone e dell’acciaio, avrebbe permesso all’UE di gettare le basi comuni per lo sviluppo economico, prima tappa della Federazione europea. Così sostenne il ministro degli Esteri francese Robert Schuman nella sua famosa dichiarazione del 9 maggio 1950. La seconda dinamica è quella dell’allargamento: da 6 paesi fondatori, l’UE conta oggi 28 stati membri (anche se uno di essi, il Regno Unito, è prossimo all’uscita dopo che i cittadini britannici si sono espressi in tal senso nel referendum del 23 giugno 2016). La terza dinamica è quella dell’approfondimento: l’UE oggi non si occupa più solamente di carbone e acciaio, ma di politica monetaria ed economica, di agricoltura, di coesione economica e sociale, di politica estera e di molto altro ancora. Insomma, nel corso del tempo è cresciuta di molto la complessità dell’UE e le sue istituzioni e dinamiche politiche hanno finito per registrare questa complessità.
Questo libro indaga un aspetto particolare di questa complessità: quello dell’integrazione differenziata, ovvero «quell’insieme di accordi, entro (o addirittura al di fuori) il quadro istituzionale dell’UE, che si distacca dal principio che tutti gli stati membri debbano muoversi verso gli stessi obiettivi con la stessa velocità. La flessibilità può riguardare i partecipanti, gli obiettivi, la velocità, o un qualsiasi insieme di questi elementi» (Zervakis 2007, 208). Detto diversamente, questo libro si occupa del processo attraverso il quale diversi stati membri (e non membri) dell’UE decidono di perseguire diversi gradi di integrazione su materie differenti e delle diverse forme che questa integrazione può assumere.
E, ancora, questo libro cerca di capire perché alcuni paesi hanno deciso di integrarsi di più mentre altri non hanno sentito la necessità di seguirli. Ma non solo. Esso esplora anche le diverse forme che la differenziazione ha assunto dal punto di vista istituzionale, e come essa possa oggi conciliarsi con il fatto che l’integrazione europea è sempre stata considerata un processo unico per tutti i paesi membri […].
Il libro si articola in cinque capitoli. Il primo capitolo presenta una rassegna dei diversi strumenti che l’UE ha usato per promuovere l’integrazione differenziata e dei diversi concetti usati nel dibattito politico e scientifico. Se, infatti, vi è un accordo nella scienza politica nel riconoscere l’importanza assunta dall’integrazione differenziata nell’UE, non vi è una definizione condivisa di concetti usati per spiegare le forme che essa può assumere. Per ognuno dei concetti utilizzati il capitolo riporta, quindi, degli esempi. I casi di differenziazione sono molti di più di quelli analizzati in queste pagine. Il capitolo si concentra sui casi principali, quelli più paradigmatici ed esemplificativi delle diverse forma che la differenziazione dell’UE può assumere e quelli su cui si è sviluppato maggiormente il dibattito politico e scientifico.
I tre capitoli successivi affrontano il tema dell’integrazione differenziata dal punto di vista storico e istituzionale. Essi illustrano come i diversi trattati hanno promosso la differenziazione e quali dibattiti politici hanno permesso che ciò avvenisse. Forme di differenziazione erano previste già nel trattato di Roma. Tuttavia, è con la metà degli anni Ottanta, dopo la crisi economica e politica degli anni Settanta, che vengono adottate le principali e più profonde forme di differenziazione. Gli accordi di Schengen della metà degli anni Ottanta sono stati pionieristici, per molti aspetti, e sono considerati ancora oggi come uno degli esempi principali dei vantaggi e dei limiti che l’integrazione differenziata può produrre. Tuttavia, è soprattutto con il trattato di Maastricht che avviene il salto di qualità. L’Unione economica e monetaria (UEM) prende avvio proprio grazie all’adozione di strumenti di integrazione differenziata [...].
Parallelamente, il dibattito politico su questi temi, come i capitoli cercano di dimostrare, è stato molto intenso. I governi nazionali hanno spesso usato la differenziazione come una minaccia per superare le difficoltà dei paesi più freddi nei confronti dell’integrazione, altre volte per evocare possibili futuri scenari dell’UE, altre volte ancora per non aderire ad accordi comunitari su tematiche elettoralmente molto sensibili a livello nazionale. Ricostruire questo dibattito è stato difficile dato il fatto che i concetti che fanno riferimento alla differenziazione sono stati usati più per ciò che figurativamente evocavano che sulla base di chiare definizioni. Concetti come «direttorio», «nucleo europeo» (core Europe), «avanguardia» sono stati usati in modo spesso interscambiabile, così come quelli di «geometria variabile» o «Europa a più velocità» […].
Il quinto capitolo riguarda l’impatto della recente crisi sulla governance economica dell’UE. Contrariamente a quanto i cittadini europei pensano spesso, l’UE non è stata ferma di fronte alla crisi. Al contrario, essa ha preso moltissime decisioni. Lo ha fatto in modo spesso confuso e contraddittorio, come può succedere nelle fasi cruciali e concitate delle più profonde crisi. Dal punto di vista della differenziazione, il risultato finale di queste decisioni è che l’UE esce dalla crisi più internamente differenziata di quanto non lo fosse quando vi è entrata. Tanto è vero che il dibattito politico e scientifico attuale sulle prospettive future dell’UE riguarda un eventuale rafforzamento dell’integrazione della sola zona dell’euro e le implicazioni che questo avrebbe per l’UE nel suo complesso (Fabbrini 2017).
Ovviamente, l’integrazione differenziata pone numerosi e importanti problemi. Essi saranno indagati soprattutto nelle conclusioni. L’integrazione differenziata rende l’UE meno facile da capire, può creare tensioni tra i paesi membri e, soprattutto, se portata all’estremo, rischia di minare l’integrazione nel suo complesso, creando due o più «europe». In ogni caso, data la complessità attuale, l’UE dovrà fare i conti con le sfide dell’integrazione differenziata o, meglio, della differenziazione integrata, se vuole sopravvivere alla sua disintegrazione.

Per gentile concessione di Mondadori education.