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ETICA E PROFESSIONI SANITARIE IN EUROPA. UN DIALOGO TRA MEDICINA E FILOSOFIA

A cura di Tiziana Faitini, Lucia Galvagni e Michele Nicoletti

10 febbraio 2015
Versione stampabile

Il libro raccoglie i primi risultati di una ricerca avviata da alcuni anni presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia di Trento, in collaborazione con l’Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari di Trento, la Fondazione Trentino Università e la Fondazione Caritro. Tale ricerca si propone di approfondire le tematiche relative all’etica della sanità e, più estesamente, all’etica professionale, accostando alla riflessione più propriamente teorica e filosofica un’indagine empirica, nella convinzione che, da un lato, la filosofia sia anche capacità di entrare in dialogo con l’esperienza per farsi interrogare da essa e, dall’altro, che sia necessario sviluppare uno sguardo più comprensivo sul tema “etica e sanità”. Questo duplice profilo trova riflesso nella struttura del volume. Gli interventi contenuti nella prima parte sviluppano infatti una panoramica sulle diverse tradizioni alle quali, in alcuni paesi europei, si è attinto per riflettere in merito alle questioni sollevate dall’esercizio della medicina contemporanea. La seconda parte contiene i risultati di due indagini su tematiche etiche svolte presso le Aziende sanitarie di Trento e Verona e le interviste ad alcuni clinici trentini.

Tiziana Faitini è assegnista di ricerca in Filosofia politica presso l’Università di Trento. Lucia Galvagni è ricercatrice presso il Centro per le Scienze Religiose della Fondazione Bruno Kessler di Trento. Michele Nicoletti è professore ordinario di Filosofia politica presso l’Università di Trento.

[dal saggio I clinici si raccontano. Un'indagine qualitativa svolta presso l'Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari di Trento.]

Per completare questa descrizione del campo di azione della medicina, possiamo fermarci e chiederci direttamente cosa sia la medicina oggi. La scientificità della medicina – con i suoi successi innegabili, l'innalzamento del livello di cura, un'efficacia diagnostica e terapeutica impensabile fino a pochi anni fa – è forse la dimensione oggi più evidente, quella che caratterizza in misura importante l'organizzazione e la pratica sanitaria, che si muove sulla base di protocolli, evidenze scientifiche, procedure, tecniche avanzate.
Eppure, si sa, la medicina è anche altro, e alcuni curanti lo percepiscono chiaramente:
«C'è un tecnicismo sempre più spinto, che è importantissimo, ma la tecnica deve rimanere uno strumento: sentiamo un vuoto sui fondamentali. Ciascuno ha bisogno di capire che c'è un senso in quel che facciamo».
Il tecnicismo efficientista garantisce sicurezza e risultati ma alimenta nel contempo, tra i medici come nella società civile, quello che più d'uno ha descritto come «senso di onnipotenza» e di rifiuto del limite, che si traduce nella difficoltà di riconoscere il momento di fermarsi e nella paura per le conseguenze legali di scelte complesse. Come ha osservato un medico di Pronto soccorso:
«La medicina difensiva è subentrata per il senso di onnipotenza che la medicina ha sviluppato in questi anni, per cui ogni cosa che succede è letta come limite o come errore».
Di fronte a ciò i clinici sentono la difficile necessità di contemperare abilità tecnica e confronto con la fragilità dell'esistenza: 
«bisogna imparare a smussare il senso di onnipotenza»,
ma ciò spesso non è semplice:
«Stamattina avevamo una paziente con un tumore cerebrale devastante, finita in coma. Non abbiamo fatto la TAC perché ne avevamo una già disastrosa di un paio di mesi fa e a lei non sarebbe cambiato nulla. Invece in geriatria, dove lavoravo prima, l'avremmo sicuramente fatta: in geriatria l'accanimento terapeutico è più spinto, semplicemente perché se tu lavori lì, sei sempre e solo a contatto con la terminalità a cui non ti arrendi e dunque spingi sempre più avanti, fai di tutto ai pazienti. L'azione non è più finalizzata al bene del paziente, ma crea un mostro».
Di nuovo, cos'è la medicina oggi? Da un punto di vista epistemologico, la scienza medica ha da sempre uno statuto problematico. Pur nella sua crescente scientificità, essa, infatti, rimane anche arte, che, come ricordavano i medievali, si distingue dalla disciplina teorica proprio per il suo rapporto sostanziale con la mutevole contingenza: la medicina è arte dagli esiti mai prevedibili con esattezza, poiché il marmo in cui affonda il suo scalpello è la vita – vita che in fondo, direbbe Canguilhem, è ciò che è capace di errore e per questo spariglia le carte.
In quest'arte gioca un ruolo di estrema importanza l'interpretazione: 
«Bisogna considerare che esistono i fatti clinici e poi ci sono le interpretazioni. La diagnosi medica è solo interpretazione, perciò i margini di lettura sono ampli».
Di più, è un'arte che si gioca nella dimensione della relazione, componente essenziale della cura e – lo abbiamo raccolto – della gratificazione, e della comunicazione, essendo la medicina in un rapporto sempre più esteso con l'informazione (ricevuta e trasmessa a più livelli, con un continuo lavoro di mediazione).
Come gestire gli errori, le eccezioni e le relazioni, che incuneano un ineludibile scarto, un surplus che sfugge alla previsione e all'oggettivazione? Sono aspetti particolarmente difficili da mettere in carico all'organizzazione di un'azienda sanitaria, che certo è strutturalmente più vicina ad una concezione scientifica e razionalistica. Eppure, sono implicazioni irrinunciabili per una ‘buona cura’: non tenerne conto si traduce, anche nella prospettiva organizzativa, in uno svantaggio.
«La riduzione degli errori, dei rischi e dei casi gestiti male dipende comunque anche da una buona organizzazione, in termini sia quantitativi che qualitativi».

«C’è un’estrema esposizione, oggi, al contenzioso medico-legale, ma se si riesce a costruire una relazione di fiducia col paziente si accettano anche gli imprevisti e la possibilità di errore».
Non si tratta allora di mettere in questione in sé né la tecnica medica né l'organizzazione aziendale, entrambe componenti fondamentali della pratica medica odierna, quanto di tenerne presenti i limiti strutturali e la materia sfuggente su cui si esercitano; qui forse troviamo un ulteriore elemento di utilità e di specificità della riflessione etica in campo medico, il suo contributo e la sua complementarietà rispetto alle dimensioni giuridiche e deontologiche. 

[...]
Se la deontologia riprende – codificandoli – alcuni parametri morali, che vengono definiti in parte dal gruppo professionale, in parte dalle richieste che provengono da e caratterizzano la sensibilità morale di una particolare società, bisogna ricordare che l'etica non si esaurisce mai completamente nella deontologia: l'etica non è mai solo deontologica, ma sempre anche esistenziale, ossia riguarda il piano delle motivazioni e quello della ricerca della felicità, e a propria volta rimanda al piano delle finalità più alte che ci si dà nell'agire. L'agire riguarda il piano pratico e per questo richiede di capire ed esplicitare per quali fini e ragioni si agisce: è questa la dimensione più propriamente teleologica dell'etica. Tutti e tre questi livelli – esistenziale, deontologico e  teleologico – sono presenti nell'etica della medicina e nel momento in cui cambiano e si modificano i riferimenti morali bisogna rivedere sicuramente finalità e doveri, o responsabilità, della professione, ma più ampliamente dovranno essere rivalutate anche le modalità per garantire ai diversi soggetti agenti, siano essi i professionisti sanitari, i pazienti o i familiari, di poter esprimere le proprie posizioni morali, la loro particolare visione della vita buona, e di fare in modo che esse vengano tutelate e rispettate.