Forte Corno ripresa aerea con drone HeliVR Aerial Imaging, Università degli Studi di Trento, DICAM 2013

In libreria

LE MONTAGNE DEI FORTI. PAESAGGI ALPINI E ARCHITETTURE MILITARI NELL'ALTA VALLE DEL CHIESE

a cura di Vittorio Carrara e Michela Favero

23 giugno 2015
Versione stampabile

“È un tiepido giorno di primavera, ma qui dentro, nella piccola cupola corazzata, fa fresco come in una cantina. Se stendo la mano attraverso la feritoia, un alito d’aria calda l’accarezza” - Fritz Weber, forte di Verla, 7 maggio 1915

La Valle del Chiese, area marginale di una regione marginale, da sempre terra di confine, di passo e di battaglie, ospita alcuni tra i più bei forti di guerra del Trentino. Dopo la battaglia di Bezzecca e il famoso Obbedisco! di Garibaldi l’Austria decise di fortificare la stretta di Lardaro con cinque imponenti edifici bellici e con linee attrezzate di difesa in quota. La valle divenne un cantiere aperto, il territorio fu segnato da opere di disbosco, sbancamento, irreggimentazione delle acque; fu sede di lavoro di centinaia e centinaia di persone, di soldati, zappatori, genieri e artificieri, scalpellini, muratori, sterratori e carradori. I forti con le rispettive guarnigioni si integrarono nella vita sociale della valle; furono poi rovinati dalle guerre, dall’incuria e dalla natura; sono di recente tornati a far parte del paesaggio, grazie ai restauri conservativi iniziati sul finire del secolo scorso. Il libro è opera collettiva di due architetti, di un geologo e di uno storico, che hanno cercato di ripercorrere e interpretare le fasi di questa vicenda singolare, fondendo insieme competenze e punti di vista differenti. Hanno raccolto un ricco apparato documentario, fotografico e cartografico, hanno riprodotto vecchie mappe e disegni o ne hanno rilevati di nuovi; hanno descritto le opere belliche nelle specifiche strutture architettoniche e negli armamenti; hanno ripercorso le fasi della storia di quelle grandi fabbriche nel contesto della vita valligiana e nel quadro complessivo di un paesaggio violato e poi reintegrato, in qualche modo riequilibrato.

I curatori
Vittorio Carrara, che ha curato la parte testuale del volume, è bibliotecario all’Università di Trento; Michela Favero, che ha curato, oltre al progetto nel suo insieme, l’apparato iconografico, è responsabile della gestione immobili dell’Università di Trento.

Gli autori e i saggi
Michela Favero, architetto e progettista dei restauri di forte Corno: "I paesaggi dei forti"; Lamberto Amistadi, architetto e docente all’Università di Bologna: "L’architettura dei forti"; Nicola Fontana, storico e archivista al Museo della guerra di Rovereto: "Progetti, cantieri e realizzazioni (1860-1914)"; Riccardo Tomasoni, geologo al MUSE di Trento: "Il territorio e i Kriegsgeologen".

Dall’Introduzione:

[…]

Cinque forti, dunque, formano lo sbarramento: i tre vecchi forti di Larino, Danzolino e Revegler, mentre «due altre opere sulle pendici latistanti, opere moderne, il forte Carriola o Por a oriente, il forte Corno a occidente, rappresentano l’inizio delle difese d’ala» (C. Battisti). I due forti più nuovi furono terminati giusto alla vigilia dello scoppio della grande guerra. La tecnica costruttiva s’era affinata e le «difese d’ala» erano fabbricati molto più ampi e più muniti che in passato. Il forte di montagna fu forse la struttura bellica nella quale si realizzò più compiutamente l’idea della guerra difensiva e di posizione. Si racconta che a Waterloo (un secolo prima, nel 1815) la battaglia fosse tutta a vista. Si poteva distinguere il nemico che puliva la bocca del cannone con lo scovolo e la palla che usciva dalla canna e cadeva facendo strage dei compagni sulla propria linea. Al contrario, la grande guerra fu anche una guerra invisibile, i colpi micidiali arrivavano non si sa da dove, il nemico poteva sparare da lontanissimo o sopraggiungere all’improvviso da sotto il suolo attraverso gallerie scavate in profondità. Nei forti, talvolta anche più che in trincea, gli uomini impotenti sperimentarono il frastuono delle granate che faceva impazzire, il senso di soffocamento per le polveri e i gas, l’angoscia di rimanere sepolti vivi, la regressione superstiziosa a ritualità ossessive e primordiali.

Nel codice militaresco il forte di montagna godeva di un’aura di sacralità riscontrabile forse solo nel mondo della marina: il comandante come il capitano della nave, per il quale era un disonore inconcepibile abbandonare il mezzo; la scelta ultima di restare, anche a costo di rimanere sotto le macerie, come quella di affondare. Si spiega bene, dunque, lo sconcerto di alcuni ufficiali di fronte alla decisione di disarmare i forti ancor prima che ricevessero il battesimo del fuoco. I progressi dell’industria bellica, nel settore della meccanica di precisione e della balistica, furono straordinari e dal 1900 al 1918 la potenza dell’artiglieria fu decuplicata. L’ingegneria, pur di altissimo livello, non poteva stare a questo passo, mentre la mentalità dei comandi militari si rivelò assai più statica delle armi e delle tecniche di cui andava favorendo lo sviluppo. I forti di Lardaro (eccetto il Carriola) furono trasformati in falsi bersagli, ma la linea fu tenuta, la guerra di posizione confermata. Più di cinquant’anni di lavoro, di traffici, di cantieri attivi, per un risultato insignificante dal punto di vista militare. Senonché i forti, pur così poco funzionali, sono opere di vera architettura e di rara bellezza. 

Intorno ai forti si lavorò sempre in tempo di pace: furono eretti fra una guerra e l’altra, distrutti dalla natura e dall’abbandono assai più che dalle bombe, ricostruiti dopo un’altra grande guerra. Restituire loro l’assetto originario, rinobilitare opere così imponenti e dal passato bellico così poco memorabile, è un’impresa di grande civiltà e una vera esortazione al pacifismo.

[…]

La Valle del Chiese è stata la scena di un singolare incontro di popoli e culture e i forti sono le vestigia di questo passato multinazionale, di questa storia marginale eppure di pregio straordinario. Con la sua operosità la valle testimonia che «i paesaggi d'Europa rappresentano un interesse locale, ma ugualmente un valore per l'insieme delle popolazioni europee» (Convenzione europea del paesaggio), è la dimostrazione vivente che esistono paesaggi che hanno caratteristiche comuni nei due versanti di una stessa frontiera. La storia è nel paesaggio e l’identità di un popolo si determina nei luoghi pubblici, nei mercati, nelle piazze, nei paesi, non certo «nei recinti chiusi e naturali della mente degli individui». L’identità, inoltre, non si scopre, ma si costruisce, si inventa, si decide. E «decidere» significa anche tentare, talvolta eroicamente, di fermare «l’inesorabilità del flusso e del mutamento» (F. Remotti). Il restauro dei forti propone in maniera visibile e manifesta il ripristino di una porzione autentica dell’anima di una civiltà.

Per gentile concessione di Fondazione Museo storico del Trentino.