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LE PAROLE DOPO LA MORTE. FORME E FUNZIONI DELLA RETORICA FUNERARIA NELLA TRADIZIONE GRECA E ROMANA

a cura di Cristina Pepe e Gabriella Moretti

10 settembre 2015
Versione stampabile

Fin dall’Antichità, alla parola è stato assegnato il compito di accompagnare il delicato e cruciale momento della morte. Il presente volume, che raccoglie gli atti del convegno internazionale "Le parole dopo la morte: forme e funzioni della retorica funeraria nella tradizione greca e romana", propone una riflessione sulle espressioni verbali che nel mondo antico erano legate al lutto e ai suoi riti e, in particolare, su quelle forme che conobbero un’esplicita codificazione in ambito retorico-letterario: dal threnos all’epigramma, dall’orazione funebre alla consolatio. L’approccio proposto punta l’attenzione non solo sugli aspetti caratteristici e distintivi di ciascuna di queste forme, ma anche, in una prospettiva più ampia, sulle tendenze e le funzioni che le accomunano nella loro natura di ‘parole dopo la morte’.

Cristina Pepe, dottore di Ricerca in Filologia Classica, ha lavorato come Assegnista di Ricerca presso l’Università degli Studi di Trento dal 2012 al 2014. Attualmente è docente a contratto presso la Seconda Università degli Studi di Napoli. I suoi interessi riguardano principalmente la storia della retorica antica (su questo tema, oltre a numerosi articoli, ha pubblicato il volume "The Genres of Rhetorical Speeches in Greek and Roman Antiquity", Boston-Leiden 2013), e la storia degli studi classici (collabora al progetto di edizione delle lettere di Theodor Mommsen agli Italiani, occupandosi dei carteggi con Agostino Gervasio e Gabriele Iannelli ed è tra i curatori del recente volume "La tradizione classica e l’Unità d’Italia", Napoli 2014).

Gabriella Moretti insegna Letteratura Latina e Filologia Latina presso l'Università degli Studi di Trento. Accanto a numerosi lavori critico-testuali ed esegetici sulle letterature classiche, si è occupata di storia della retorica antica (per le intersezioni fra retorica e filosofia si veda soprattutto il volume "Acutum dicendi genus. Brevità, oscurità, sottigliezze e paradossi nella tradizione retorica degli Stoici", Bologna 1995), e in particolare dei rapporti fra retorica e visualità (si vedano in proposito i volumi a sua cura "Le Immagini nel Testo, il Testo nelle Immagini: rapporti fra parola e visualità nella tradizione greco-latina", Trento 2011 e "Persona ficta: la personificazione allegorica nella cultura antica fra letteratura, retorica e iconografia", Trento 2012); di letteratura allegorico-didascalica fra Antichità, Tardoantico, Medioevo e Rinascimento" (fra i molti lavori in proposito si veda il volume "I primi volgarizzamenti italiani delle nozze di Mercurio e Filologia", Trento 1995) e di utopie geografiche fra mondo antico e letterature europee ("Gli Antipodi. Avventure letterarie di un mito scientifico", Parma 1994).

INTRODUZIONE
SULLE TRACCE DI UNA ‘RETORICA FUNERARIA’

Fin dall’Antichità, alla parola è stato assegnato il compito di accompagnare il delicato momento della morte. La parola è lo strumento attraverso cui si dà voce al dolore, favorendone la sublimazione; si tessono le lodi della persona scomparsa, alimentando la speranza che possa continuare a vivere nel ricordo; si consolano i vivi, incoraggiando il superamento della crisi generata dalla perdita. Il presente volume raccoglie gli atti del Convegno internazionale Le parole dopo la morte: forme e funzioni della retorica funeraria nella tradizione greca e romana, dedicato – come recita il titolo – alla “retorica funeraria”:1 sotto questa denominazione si è inteso comprendere quella varietà di forme verbali connesse con il lutto e con i suoi riti che nella tradizione greca e romana hanno avuto un’esplicita codificazione in ambito retorico-letterario, dal θρῆνος all’epigramma, dall’orazione funebre alla consolatio.Attraverso l’analisi di testi rappresentativi, ci si è proposti di mettere a fuoco alcuni aspetti caratteristici di ciascuno di questi generi e, al contempo, sottolineare alcune tendenze e funzioni che li accomunano proprio in ragione della loro natura di parole dopo la morte. Il percorso prende avvio dalla più antica manifestazione verbale del lutto, il lamento. La tradizione letteraria del θρῆνος, che reca in sé tracce delle pratiche di lamento rituale, trova le sue espressioni archetipiche nei poemi omerici: basterà rievocare la celebre scena dell’ultimo libro dell’Iliade con le donne troiane che piangono Ettore.3 Se del θρῆνος arcaico solo pochi frammenti si sono salvati, in epoca classica – ricorda nel suo contributo Maria Luisa Chirico – esso rivive all’interno del genere tragico, sviluppando nuove modalità espressive e soluzioni metriche: da un lato, i κομμοί eseguiti in responsione dal coro e dai personaggi in scena si alternano alle monodie epirrematiche, nelle quali la figura dell’eroe solitario eleva in assoluto isolamento il proprio grido di dolore; dall’altro, i canti spiegati in metri lirici lasciano spazio o si combinano a ῥήσεις dall’andamento giambico-anapestico. La studiosa si sofferma quindi ad analizzare la ῥῆσις trenetica in trimetri giambici che Ecuba, nell’esodo delle Troiane, pronuncia alla vista del cadavere del piccolo Astianatte, evidenziando le ragioni drammaturgiche e poetiche che hanno spinto Euripide a scegliere questo modulo.
Emily Allen-Hornblower mostra come la ricerca e l’esplorazione di differenti modalità espressive per dare forma al θρῆνος conducano Euripide a sperimentare soluzioni ibride: particolarmente interessante è il caso dell’Elettra, dove si assiste alla combinazione tra i moduli tipici del lamento e quelli di una tipologia discorsiva altrettanto ricorrente nell’impianto tragico, cioè il racconto del messaggero. Dopo l’uccisione di Clitennestra, Oreste ed Elettra intonano in responsione con il coro un κομμός nel quale riportano quanto accaduto al di fuori della scena, accompagnando le loro parole con movimenti del corpo che mimano il momento dell’assassinio. Proprio nel riprodurre l’azione brutale che hanno appena compiuto, essi realizzano di esserne non solo i colpevoli ma anche le vittime, e la loro voce si trasforma così nel grido addolorato di figli che piangono il corpo senza vita della propria madre.Fin da epoca molto antica, si riconosce nell’epigramma inciso sulla pietra un importante strumento per commemorare i defunti e garantirne la sopravvivenza nel ricordo. Valentina Garulli richiama l’attenzione su una delle forme più frequentemente assunte dall’epigramma sepolcrale, quella dialogica, che restituisce la voce ai morti immaginando che la comunicazione con i vivi non si sia mai interrotta. Il contributo illustra, attraverso una disamina di esempi significativi, i procedimenti impiegati nella poesia epigrafica per creare l’illusione del dialogo – per esempio tra il defunto e uno dei suoi cari, o tra il defunto e l’anonimo passante – e per differenziare le diverse voci: da una parte strumenti interni al testo, come il metro, la forma grammaticale e sintattica, la lingua, dall’altra strumenti extratestuali, come i segni di lettura e la mise en page.Se l’epigramma riconsegna la parola ai morti, una delle possibili soluzioni è che siano gli interessati a scegliere in anticipo cosa dire. Di autoepitafi, siano essi frutto di finzione letteraria o espressione delle reali ultime (o, per meglio dire, penultime) volontà, si occupa il contributo di Luigi Spina. Gli epitafi scritti se vivo costituiscono il più aperto manifesto di quell’aspirazione ad una fama capace di vincere l’ineluttabilità della morte. Essi ci mostrano il defunto nell’atto di valorizzare le azioni a cui ha consacrato la propria vita pubblica e privata, scegliendo quale immagine di sé affidare al ricordo dei posteri.