Particolare dalla copertina.

In libreria

Cooperative da riscoprire. Dieci tesi controcorrente

di Carlo Borzaga

16 ottobre 2019
Versione stampabile

Piccole. Persino troppo per concorrere alla pari con altre forme d’impresa, per innovare, per partecipare con credibilità al dibattito pubblico, per anticipare bisogni oggi potenziali e domani necessari. Desuete. Lontane rispetto alle istanze di una digitalizzazione ampiamente invocata e di un’economia ormai condivisa, on demand, ritmata da un clic. Sottocapitalizzate. Meno efficienti delle imprese di capitali. Dipendenti dall’attenzione quasi assistenzialista che muove la mano pubblica. Favorite, privilegiate. Persino false. E per questo biasimabili a cadenza regolare nelle dichiarazioni pubbliche di chi, di volta in volta e al di là del colore, varca gli spazi del Parlamento. Parlare di cooperative porta inevitabilmente qui: nelle retrovie buie e incerte di una narrazione dominante, di una rappresentazione ampiamente ricorrente quanto scarsamente corrispondente all’originale. Vero e verosimile, percezione e realtà pare confondano persino chi, quotidianamente, anima il sistema cooperativo. Ma quanto c’è di vero? Quanto i detti corrispondono ai fatti? L’Istituto europeo di ricerca sull’impresa cooperativa e sociale (Euricse) se l’è chiesto, sin dalla sua fondazione. E alla mancanza di analisi empiriche a supporto delle tesi mainstream ha risposto con evidenze, numeri, disamine teoriche. In occasione dei suoi primi dieci anni di vita, Euricse ha quindi raccolto alcuni dei risultati delle ricerche più rilevanti prodotte in tempi recenti. L’ha fatto per dare consistenza alle parole. L’esito è una riflessione che getta nuove basi, meno emotive e più scientifiche, per capire il futuro di un sistema – quello cooperativo – che ha ancora più di una sfida da vincere e che ha tutto il potenziale per interpretare le trasformazioni che segneranno il nostro tempo e quello a venire.

Carlo Borzaga è docente presso il Dipartimento di Sociologia e ricerca sociale e il Dipartimento di Economia e Management dell’Università di Trento.

Dall’introduzione (pag. 3-10)
Leggendo i giornali, ascoltano i discorsi della maggior parte dei politici o se vogliamo di una gran parte degli italiani, non si può certo dire che la cooperazione sia guardata con l’attenzione di cui era stata oggetto dal secondo dopoguerra fino alla fine degli anni ’90. E neppure che goda in questo momento di un’ottima reputazione. Eppure, se si guarda ai numeri che produce – e di cui si cercherà di dare conto in questo saggio -  meriterebbe sia l’una sia l’altra perché rappresenta per l’Italia una risorsa di importanza crescente proprio a partire da questi primi anni del secolo. 

In realtà in Italia di cooperative si parla abbastanza, ma considerata la scarna conoscenza di base, il dibattito produce un esito contradditorio. Nelle occasioni ufficiali si è spesso generosi nel riconoscerne la funzione sociale e la loro capacità di stare sul mercato. [...] Al contrario, sui media se ne parla perlopiù male, soprattutto quando una cooperativa è coinvolta in qualche scandalo. E si contribuisce, così, a formare una reputazione negativa dell’intero comparto. [...]

Non solo. Le si cita malamente. Le si cita, spesso, per dimostrare che prosperano grazie a rapporti poco chiari con amministrazioni pubbliche, a relazioni poco trasparenti con i soci o allo sfruttamento dei lavoratori. Quasi a lasciare intendere che, se non ci fossero le cooperative, tutto questo non succederebbe. [...] Eppure, a ben vedere, spesso i gestori di questi servizi non sono cooperative ma operatori privati cui le cooperative – quelle vere e non quelle nate una settimana prima dello scadere delle gare di appalto – si oppongono in varie parti del Paese, anche stipulando veri e propri accordi con prefetture e amministrazioni locali per sviluppare modelli di accoglienza virtuosi. [...]

Un dato di fatto, questo, che molti critici non solo non conoscono ma neppure immaginano. Un altro esempio: si fanno reportage su casi di bieco sfruttamento dei lavoratori da parte di “false cooperative”. Persino qui seguendo la retorica politica; tuttavia dimenticando che sono stati i governi italiani (prima di centro, poi di destra) a modificare il codice societario. Come? Ammettendo – se non incentivando – la formazione di cooperative che possono distribuire, senza limiti, utili e patrimonio; consentendo la costituzione di cooperative di soli tre soci, con amministratore unico e senza limiti nell’assunzione di dipendenti (alla faccia della democraticità) e più in generale non imponendo forme di governance che garantiscano davvero che il potere decisionale sia effettivamente nelle mani dei soci.
Due modi di vedere la cooperazione, si potrebbe quindi dire. Due modi e due registri difformi. [...]

Ma il quadro non è del tutto desolante. Di cooperative si parla anche bene. A volte persino con entusiasmo. Specie quando ci si rende conto che possono dare un contributo originale alla soluzione di qualche problema. Come è successo con la cooperazione sociale fino a quado era un fenomeno di nicchia. E come sta succedendo in questi anni con gli worker buyout o le “imprese recuperate” dove i lavoratori di imprese fallite o in difficoltà si unisono in cooperativa per salvare o rilanciare l’impresa in cui lavorano o avviare attività sostitutive in grado di garantire loro un’occupazione. Oppure con le cooperative di comunità che stanno iniziando a rivitalizzare paesi in stato o in corso di abbandono; che organizzano gruppi di cittadini per fornire servizi di interesse collettivo che nessuno – né amministrazioni pubbliche né imprenditori privati - sembra avere voglia (e risorse) per garantire. [...]

Di più. La tendenza prevalente è di porre l’attenzione solo sugli effetti diretti dell’attività delle cooperative, trascurando quelli indiretti che in alcuni casi sono anche più importanti dei primi. Come quando si sostiene che le cooperative non pagano le imposte (affermazione come si vedrà tutta da dimostrare) ma non si va a vedere quanto contribuiscono a contenere la spesa pubblica quando tutelando o addirittura aumentando l’occupazione nelle fasi di crisi. E, in questo modo, fanno risparmiare decine di milioni di ammortizzatori sociali. Oppure quando con pochi aiuti pubblici garantiscono un lavoro regolare e remunerato a persone che altrimenti sarebbero totalmente dipendenti dalla spesa pubblica.

Anche queste valutazioni positive, tuttavia, un po’ per i loro limiti e un po’ perché vale anche in questo caso il detto che “fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce”, non bastano a impedire il diffondersi acritico di un giudizio complessivamente negativo dell’intero fenomeno cooperativo. Una sentenza fugace quanto autolesionista perché a perderci sono tutti: non solo e non tanto le cooperative, quanto il sistema economico e sociale italiano di cui le cooperative rappresentano – anche questo un fenomeno poco noto – una componente tutt’altro che marginale. [...]

Sono stereotipi diffusi, per fare un altro esempio, la convinzione che le cooperative siano tendenzialmente meno efficienti delle consorelle capitalistiche perché non hanno lo stimolo del profitto; che sopravvivono perché godono di importanti agevolazioni fiscali e non pagano tasse; che creano solo lavoro povero, precario e sottopagato chissà rispetto a chi.

Così, quando hanno successo, in genere non si dice – come per le altre imprese – che il merito è del modello di governance che le caratterizza o della capacità imprenditoriale di chi le ha fondate e gestite, ma degli aiuti che hanno ricevuto dallo Stato. Se poi per qualche ragione vanno male, la colpa è sempre dei soci o di chi le gestisce e non di fattori esterni. È successo di recente alle Banche di Credito Cooperativo le cui difficoltà sono state imputate, almeno in parte, non alla crisi che ha colpito il Paese ma esclusivamente a una governance inadeguata e impreparata. E tutto ciò nonostante i salvataggi di queste banche non siano costate neppure un euro né allo Stato né ai risparmiatori né tantomeno ai loro proprietari che non sono stati chiamati a onerose ricapitalizzazioni, e nonostante siano state obbligate a contribuire per oltre 130 milioni di euro alle operazioni di salvataggio delle quattro banche locali ma per nulla cooperative. 

Con queste premesse è davvero difficile che il sistema cooperativo possa venir valutato per quello che realmente rappresenta, dal punto di vista sia economico sia sociale. Anzi è ovvio che ci si debba aspettare il contrario. Ciononostante una valutazione realistica è necessaria non tanto alla cooperazione, ma al Paese. L’insieme delle imprese cooperative infatti rappresenta per l’economia italiana una componente oggettivamente importante in generale, se non addirittura fondamentale in alcuni settori come quello agricolo o quello dei servizi sociali.

Per gentile concessione della Casa editrice Donzelli