Dettaglio dalla copertina

In libreria

L’albero del romanzo. Un saggio per tutti e per nessuno

di Massimo Rizzante

11 dicembre 2019
Versione stampabile

La critica letteraria in forma di saggio e di meditazione personale sembra scomparsa, fagocitata da una parte dalla Dea Attualità e dall’altra dai contorsionismi delle mode accademiche neo- post- trans- che si succedono da almeno trent’anni non trovando letteralmente parole nuove per dire quel che accade (o non accade) nel mondo dell’arte e della letteratura. Il volume di Massimo Rizzante ci ricorda che essere radicali significa tornare continuamente alle radici, che la Storia non può essere sostituita dalla cronaca e che i frutti dell’albero del romanzo, considerati i décalage che esistono tra le diverse parti del mondo – e la coesistenza di diversi gradi di civiltà –, possono nascere nei luoghi più segreti. Se il romanzo è un albero, il romanziere, tuttavia, afferma l’autore, non aspira a coltivarlo. Non aspira al giardinaggio. Quel che desidera è appartenergli, diventare un ramo di quell’albero. A tal punto che sarà inutile cercare di ridurre la complessità dell’opera alla storia della sua nazione, alla sua lingua o al suo patrimonio culturale. Ogni nuovo ramo dell’albero del romanzo, infatti, è una misteriosa messa in discussione della sua genealogia.  

Massimo Rizzante è professore associato presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento

La critica degli scrittori (pag. 125-128)

[…] Riccardo Piglia ha insistito per tutta la vita sull’importanza della critica degli scrittori […]: sapeva bene che senza la loro «precisione tecnica», la loro «strategia provocatoria», la loro preoccupazione per il «problema del valore», la tradizione moderna del romanzo si sarebbe perduta. Mi chiedo se una delle ragioni per cui il romanzo contemporaneo abbia così drasticamente ridotto le sue ambizioni non sia dovuta alla mancanza di pensiero critico da parte degli scrittori. Sembrerebbe un paradosso, ma non lo è: oggi il problema non è quello del talento. Di «creatività» ce n’è fin troppa. Quel che manca è la riflessione estetica dentro e fuori dell’opera. Senza di essa la creazione artistica si riduce a ben povera cosa: un buon prodotto, una buona story da far circolare, dove la circolazione vince sulla produzione. Se gli scrittori si mettono dalla parte della circolazione del prodotto, come possono poi pretendere che la loro produzione artistica assuma un valore incalcolabile, cioè quel valore che, al di là di ogni giudizio, per definizione non si può calcolare secondo i criteri della circolazione economica: tempo, quantità, rapidità, costi? […]

Nel corso dei secoli, e ancora fino a qualche decennio fa, gli scrittori si preoccupavano in modo del tutto naturale di intervenire nella lotta per il rinnovamento dei classici, per riscoprire opere dimenticate, per tradurre i loro colleghi poco noti o inediti, per polemizzare contro un genere diventato stantio, per promuovere nuove gerarchie letterarie. Gli esempi sono innumerevoli solo nel XX secolo. Prendete questa serie e vedrete spuntare un ramo dell’albero del romanzo: Flaubert che rilegge Rabelais; Kundera che rilegge Flaubert alla luce di Rabelais; Rushdie che rilegge Rabelais alla luce di Kundera. Oppure: Fuentes che rilegge Broch alla luce del primo grande romanziere moderno latinoamericano: Machado De Assis. Gombrowicz che se la prende con Dante, non tanto per sminuire Dante, quanto per colpire le convenzioni del linguaggio poetico del suo tempo e i riti solipsistici, per non dire autistici, della poesia moderna della seconda metà del XX secolo. Il riscatto che Hemingway fa di Mark Twain. La stroncatura di Nabokov dell’opera di Faulkner... 

Gli scrittori non sono mai stati dei poliziotti, dei «vigilantes» della letteratura. Non concepiscono la letteratura come una proprietà da difendere o su cui esercitare un diritto di prelazione a futura memoria. La letteratura, afferma Piglia, non è uno Stato. Esattamente il contrario: è una società dove non si può imporre nessuna legge «perché in letteratura non c’è legge che possa essere imposta». 
Gli scrittori, poi, sono sempre stati dei saggisti nella misura in cui hanno saggiato, provato, percorso, strade parallele, alternative, hanno desiderato mettere in circolo – spesso in circoli ristretti – ciò che sembrava dimenticato. Piglia lo ha detto e ripetuto: «Gli scrittori sono gli strateghi della lotta per il rinnovamento letterario». E ha aggiunto: «Se non fosse così, le discussioni accademiche sarebbero più importanti della letteratura [...] È la letteratura viva, chiamiamola così, che produce i dibattiti che illuminano i testi e che permette di introdurli nel pensiero critico contemporaneo». 

Ed eccoci a noi, al nostro mondo degli inizi del XXI secolo, dove le «discussioni accademiche sono più importanti della letteratura», dove gli scrittori, avendo abbandonato ogni volontà di ridisegnare la storia letteraria, hanno lasciato questo compito ai professori che, invece di compiere il loro onesto lavoro di prendere atto del dibattito critico contemporaneo alla luce della tradizione e della Storia, si sono messi al posto degli scrittori, producendo un cortocircuito: se fuori c’è il vuoto, non si può riempirlo stando dentro! Tale cortocircuito è ancora più evidente e disastroso in Europa che negli Stati Uniti o in America Latina, perché nel nostro continente gli scrittori entrano meno facilmente nelle università che, come lo stesso Piglia mostra, sono diventate l’unico e forse ultimo paradossale avamposto – allo stesso tempo luogo di conservazione e di innovazione – da cui osservare il mondo atomizzato della società di massa. Quando gli chiedevano se avesse un’isola deserta in cui rifugiarsi per scrivere, Piglia rispondeva che oggi, non potendo andarsene, come ai tempi di Gauguin e Stevenson in posti sconosciuti e esotici, l’unica isola che rimaneva a uno scrittore era quella di Manhattan. Possibilmente in una biblioteca universitaria. 

Ora, perfino in questo Borges, su cui Piglia ha scritto forse le pagine più profonde che conosco, è stato un precursore: eccolo lì il vecchio bibliotecario quasi cieco con il viso incollato alle pagine di qualche volume della sua Enciclopedia Britannica che ci sorride beffardo e malinconico. Dove volevate andare? Non c’è più nessun altrove... 
Quando Piglia ripercorre l’opera saggistica di Borges, sottolinea un altro fattore essenziale che gli scrittori hanno sempre messo in luce nella loro critica: quando uno scrittore analizza con «precisione tecnica» il «problema del valore» delle opere degli altri, lo fa «in funzione di una lettura mirata» dei libri che lui stesso scriverà. Non si può comprendere l’opera di Borges se non ci si pone questa domanda: perché a un certo punto, tra gli anni trenta e quaranta del secolo scorso – il decennio chiave della messa a punta della sua estetica – l’autore difende molti scrittori allora considerati minori in Argentina e in Europa come Conrad, Stevenson, Kipling, Wells, contrapponendoli a Dostoevskij, Thomas Mann, Proust, ritenuti i modelli centrali del romanzo? Per la stessa ragione per la quale Borges si dedica alla lettura del romanzo poliziesco, di quello di avventura e di altri generi «minori», compreso il cinema di Hollywood e la letteratura popolare gauchesca. «Perché – afferma Piglia – desidera essere letto da quel punto di vista», e non da quello di Dostoevskij, di Proust, o da quello del cinema d’autore. […]

C’è un aneddoto che, a distanza di sessant’anni, conserva tutta la sua attualità per comprendere la situazione dello scrittore dentro quell’istituzione chiamata università. Siamo nel 1958. Quell’anno Borges, racconta Piglia, tiene alcuni corsi di letteratura inglese e tedesca alla Facoltà di Lettere e Fi- losofia di Buenos Aires. Un giorno un professore, un sociologo assai celebre e stimato nel mondo accademico, lo chiama e gli annuncia che il Consiglio di Facoltà ha deciso di ridurgli della metà lo stipendio. Immagino la scena: «Senta, caro Borges, non se la prenda, non è un dramma. E poi, se devo parlarle francamente, la letteratura medievale tedesca e inglese non è certo una materia così fondamentale qui da noi. Queste cose le può insegnare anche privatamente. No? Il suo modo di insegnarle, inoltre, è assolutamente privo di fondamento scientifico. Non ha metodo. Non possiamo incoraggiare chi prende in giro la religione cristiana o ne fa addirittura un genere letterario...». Borges resta in silenzio. Si limita a stringere la mano all’illustre collega e se ne va. Un po’ come si era comportato nel 1946, quando, sotto Perón, lo avevano cacciato dalla biblioteca municipale per nominarlo Ispettore dei volatili del mercato di Buenos Aires. 
Gli scrittori, nel 1958 come oggi, possono essere oggetto di tesi di dottorato o di ricerche sociologiche, ma è meglio che se ne stiano ai margini dell’insegnamento universitario. Sebbene l’università nel frattempo si sia trasformata in quel luogo contraddittorio dove, in assenza di «vita letteraria» nella società, la tradizione tira pugni a vuoto contro un’avanguardia diventata establishement, la domanda che il professor Roman Jakobson pone a una platea di suoi pari sull’opportunità di invitare Nabokov a tenere una lezione – e che Piglia immagina nel suo romanzo Prigione perpetua (1988) – non ha smesso di risuonare: «Signori, rispetto il talento letterario del signor Nabokov, ma a chi capita di invitare un elefante a tenere corsi di zoologia?». 

Per gentile concessione della Casa editrice Effigie