Immagine tratta dalla copertina del libro

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CERVELLI CHE CONTANO

di Giorgio Vallortigara e Nicla Panciera

18 novembre 2015
Versione stampabile

Se vediamo uno stormo di uccelli «per un secondo o forse meno» – come nel famoso apologo di Borges nell'Artefice –, non siamo in grado di stabilire il numero esatto di volatili: possiamo però stimarne approssimativamente l'ampiezza, giudicare se lo stormo è più grande o più piccolo rispetto a un altro. Muovendo da questo elegante esempio letterario, Giorgio Vallortigara (neuroscienziato, professore ordinario dell'Università di Trento) e Nicla Panciera (giornalista) ci introducono alla scoperta che la successione dei numeri interi, la cosa più intuitivamente discreta, è rappresentata nel cervello da quantità continue, affette da caratteristico «rumore».
Paragonabili all'embricazione tra analogico e digitale nella tecnologia informatica, queste due modalità, discreta e continua, sono riconducibili a una «qualità sensoriale primaria» che risponde al numero come agli altri stimoli visivi o acustici. In altre parole, ci sono nel cervello neuroni selettivamente sensibili alla numerosità degli oggetti a prescindere dalla loro grandezza, forma o posizione, e responsabili di un «senso del numero» analogo a quello dello spazio e del tempo. Dispiegando varie prove sperimentali che vanno dall'analisi del comportamento fino a quella dell'attività dei singoli neuroni, gli autori da un lato mostrano l'esistenza di innate capacità matematiche in un ventaglio sorprendentemente ampio di specie, e dall'altro, sul versante specificamente umano, ricostruiscono il passaggio storico-culturale che ha portato Homo sapiens all'elaborazione dei numeri astratti in parallelo a quella delle lettere dell'alfabeto: un «salto simbolico» utile in principio solo a una più efficace gestione degli scambi commerciali, ma destinato a generare le vertiginose complessità formali e concettuali della matematica contemporanea.

 

Estratto

In natura, gli animali non si limitano a sommare o sottrarre oggetti discreti, ma risolvono numerosi tipi di calcoli, come quelli relativi ai rapporti e alla probabilità. Ad esempio, sanno valutare la bontà di una fonte di cibo, stimando il rapporto tra la sua quantità e il tempo speso per ottenerlo. In ambiente naturale, inoltre, il contesto è non solo fortemente mutevole, ma c’è anche l’incertezza sull’esito di un comportamento che varia nel tempo, come quello di continuare a seguire una traccia odorosa che finora non ha portato a nessuna preda e che, magari, data l’insidiosità di un percorso, potrebbe aumentare il rischio di incontrare un predatore. 
(….)
Secondo Gallistel e Gelman c’è una buona ragione perché quantità discrete (numeri interi) e continue (spazio e tempo) debbano essere rappresentate nel cervello con una moneta comune, ovvero quella delle magnitudo mentali con variabilità scalare. In molte circostanze, infatti, gli organismi biologici hanno necessità di compiere operazioni aritmetiche che coinvolgono domini distinti.
Un animale ad esempio ha il problema di calcolare il tasso di ritorno a una fonte di foraggiamento, di capire cioè quanti viaggi gli conviene fare a uno stesso luogo destinato nel tempo a esaurirsi. In natura si tratta di un’eventualità frequente e di estrema rilevanza biologica (pensate a un’ape o a un colibrì che devono rivisitare le fonti di nettare, che sono per loro natura soggette a esaurirsi). In tutti questi casi, durate e numerosità devono essere rappresentate, per così dire, da una stessa «valuta», così da consentire l’equivalente della divisione.
Alcuni ricercatori, come il neuroscienziato cognitivo Vincent Walsh, hanno proposto che possa esistere nel cervello una struttura comune per tempo, spazio e numerosità, ossia un sistema unitario di valutazione della quantità, localizzato presumibilmente nella parte inferiore del lobo parietale.
L’esistenza di un «sistema generale di valutazione della grandezza » trova conferma in esperimenti condotti su bambini molto piccoli (nove mesi), che mostrano come questi, dopo aver appreso ad associare una grandezza (per esempio le dimensioni fisiche di un oggetto) a determinate proprietà (colore o disegno), estendano tale nozione a una grandezza di tipo diverso, come la numerosità o la durata. Ad esempio, abituati alla presenza di oggetti grandi a strisce bianche e nere, e di oggetti piccoli a puntini bianchi e neri, essi si aspettano che la stessa relazione tra dimensione degli oggetti (grandi o piccoli) e colore/disegno valga nel dominio del numero degli oggetti (molti o pochi) e in quello delle loro durate (brevi o lunghe).
Ricerche condotte con i neonati suggeriscono inoltre che i legami tra numeri, spazio e tempo non siano il risultato di un processo di apprendimento. Neonati di poche ore o pochi giorni di vita associano spontaneamente un aumento nell’estensione spaziale a un aumento della numerosità o della durata, ma non mostrano un’analoga reazione quando queste grandezze variano in senso opposto.
Sembrerebbe, insomma, che sia stato il bisogno (nostro e degli altri animali) di compiere operazioni aritmetiche a plasmare nel corso dell’evoluzione il modo in cui le quantità sono rappresentate nel cervello. All’idea kantiana che tempo, spazio e numero siano nozioni primitive della mente potrebbe sottostare un’ipotesi ancora più radicale: che vi sia un’intuizione primaria della grandezza (magnitudo), frutto dell’evoluzione biologica e presente in noi sin dalla nascita, che fornisce a spazio, tempo e numero una struttura comune. 
(….)
È chiaro, comunque, che nella nostra specie è stata l’introduzione dell’uso di simboli esterni per indicare le numerosità a rendere possibile, almeno in alcune culture umane, lo sviluppo pieno della nozione di cardinalità e quindi un’aritmetica precisa con numeri comunque grandi. Ciò però non può aver implicato un cambiamento nella struttura biologica del cervello. La documentazione più antica sull’uso di simboli esterni risale a circa quarantamila anni fa. Pertanto strutture nervose che erano nel cervello dei nostri antenati devono essersi fatte carico del nuovo sviluppo, del passaggio dalla numerosità approssimata al concetto di numero come entità discreta basata su simboli esterni. Conosciamo quali siano queste strutture: quelle del solco intraparietale, dove vi sono i neuroni che rispondono alla numerosità, e quelle della corteccia prefrontale, dove si trovano i neuroni che possono apprendere ad associare semanticamente una numerosità con un segnale visivo, facendolo così diventare un simbolo. E la manipolazione di questi simboli secondo regole è diventata, in alcune società della nostra specie, il territorio sconfinato della matematica, con la sua ormai millenaria storia intellettuale.

Per gentile concessione di Adelphi editore.