Foto dal blog di Nicola Lugaresi (Università di Trento)

In libreria

Una via differente. Con dodici studenti, sulla Via degli Dei

di Nicola Lugaresi

10 gennaio 2020
Versione stampabile

Mi occupo di diritto dell'ambiente e sostenibilità, amo camminare, e mi sono innamorato della Via degli Dei. Mi piace avere con i "miei" studenti un rapporto aperto, informale e diretto. E farli sudare, letteralmente. Ho progettato un corso universitario diverso, per trasmettere qualcosa di altrettanto diverso. E per condividere sei giorni di vita con dodici studenti, esplorando luoghi, incontrando e conoscendo persone e discutendo di diritto.
Questo libro cerca di raccontare, spiegare, esprimere. Ma, soprattutto, è una dichiarazione, e un invito.

L’intero ricavato, escluse le sole spese vive sostenute dall’editore, andrà a favore della Fondazione Francesca Rava – NPH Italia Onlus e di Ageop Ricerca Onlus.

Dal capitolo 3: Wese © e un corso ignorante (pag.18-22)

Volevo, semplicemente, un corso diverso. Dovevo, però, dargli un nome, individuare un metodo didattico, superare le trappole burocratiche, ottenere un finanziamento per ridurre le spese degli studenti e renderlo appetibile, in modo da avere con me qualche giovane viandante. Viandante? Frequentante, ah, già.
In effetti, avuta l’idea, mi erano chiare, da subito, e per molto tempo, solo due cose. Volevo tenere quel corso, e, appunto, volevo un corso assolutamente diverso. Lo volevo diverso per i ragazzi, ma lo volevo diverso anche (soprattutto?) per me. Avevo bisogno di cambiare qualcosa nel mio lavoro. Mi ero accorto, tardivamente, che non mettevo più la stessa passione in quel che facevo. Chiamarlo lavoro era il primo sintomo. Le sensazioni, più piatte, entrando in aula, il secondo. Il pensiero di un futuro ripetitivo, pensiero a volte paurosamente accogliente, il terzo. Avevo perso la parte più indefinibile, e più gratificante, dell’essere un docente, almeno sotto il profilo didattico: educare, professare, ispirare, senza limitarsi a istruire, trasferire nozioni e valutare. Avevo bisogno di uscire dalla mia zona di conforto, sperimentare, anche rischiando fallimenti e disillusioni.
Creai il corso gradualmente, ma rapidamente. Pensai, ovviamente, all’aspetto didattico, sia pure inteso in modo ampio. Ma, allo stesso tempo, mi concentrai sul camminare e sudare insieme, sulla interazione di gruppo, sul rapporto tra docente e studenti, sugli spazi che si aprivano ad orizzonti diversi che ancora non conoscevo, e non volevo conoscere ed imporre, ma creare insieme ai miei studenti, sui sentieri.
Si tratta di un corso estremamente libero, per gli studenti, ma prima ancora per me. Non mi sono preoccupato di riferimenti dottrinari, buone pratiche di insegnamento, tabelle ministeriali. L’avevo fatto (con un minimo di anarchia) per anni, ero stanco. Mi sono preoccupato di “sentire”, riflettendo, ma non troppo, su cosa l’insegnamento possa essere. Approccio che, onestamente, potrebbe essere definito cialtronesco e che così, sia pure con altre parole, è stato, in parte, occasionalmente definito. Anche per questo lo definisco un corso “ignorante”, il mio primo corso “ignorante”. Qui ho un paio di riferimenti, uno cinematografico (le fate), uno cestistico (i tiri), che ho messo insieme per definire qualcosa che rompe gli schemi, supera le convenzioni e può dare notevoli soddisfazioni. 
Ho quindi seguito il mio istinto, e la mia esperienza, soprattutto riferita agli errori che avevo fatto nel mio “lavoro”, primo tra tutti l’inerzia. Ho costruito un metodo didattico aperto, mobile (“liquido”?) in tutti i sensi, e non troppo definito; poi un corso per una facoltà di giurisprudenza; infine li ho testati, nella prima edizione dell’iniziativa.
A quel punto, in poco tempo, ho trovato quello che mi serviva.
[…]
Al di là di questi aspetti, il metodo, ed i suoi quattro elementi rappresentativi (camminare, sperimentare, condividere e divertirsi), dovevano esprimere, non solo in teoria o nominalmente, l’essenza del corso che ne sarebbe seguito e gli obiettivi principali: introdurre gli studenti al diritto ambientale, mostrando loro i territori, con i loro valori e le loro cicatrici; discutere criticamente di sostenibilità, vivendola attraverso dinamiche di gruppo; ripensare le relazioni accademiche, in funzione degli obiettivi realmente importanti, dimenticando i ruoli, e formando una piccola comunità nomade, aperta e curiosa.
Volevo un corso partecipativo e gioioso, libero e aperto (anche all’aperto, già che c’ero) e, soprattutto diverso, basato sì sugli strumenti tradizionali del giurista (norme, sentenze, concetti, nozioni, e così via), ma, prima ancora, su percezioni, sensazioni e, perché no, perché vergognarsene, emozioni. Da qui, una diversa prospettiva sui concetti di sviluppo sostenibile e sostenibilità, non limitati a scopi didattici diretti, ma frutto, e al contempo strumento, di una elaborazione personale basata, anche, su un’esperienza, un pochino, guidata.
Volevo che coinvolgesse il camminare, perché fa bene al corpo, allo spirito e al cervello, mostrando ciò che ci circonda, al giusto ritmo. In più, camminare, la fatica, il sudore, i pranzi condivisi nei boschi, aiutano a creare velocemente un gruppo più coeso ed intimo, se i partecipanti colgono, e desiderano, quell’opportunità. Anche per quello non volevo una passeggiata insieme, che pure sarebbe stata gradevole, ma qualcosa che richiedesse sforzo ed impegno, ingredienti per un’esperienza più intensa. Walk.
Volevo che coinvolgesse lo sperimentare, vivendo e non solo studiando, e il fare esperienze, perché ciò aiuta a capire e ricordare cosa la sostenibilità sia. Sperimentarla e praticarla nella vita personale e professionale. Sperimentare un modo diverso di imparare, studiare, considerare le tematiche ambientali, essere in una classe al di fuori di un’aula, interagire con i compagni di cammino e con le persone che si incontrano lungo la via. Sperimentare senza soluzione di continuità turismo sostenibile, empatia, apprendimento, sensazioni ed emozioni. Custodendo ricordi. Experience.
Volevo che coinvolgesse il condividere, al tempo stesso fine e strumento nella creazione di un gruppo e di una comunità. Condividere sentiero, pensieri, dubbi, idee, barrette di cereali, umori, stanchezza, cerotti, risate. Condividere tra di loro, non più colleghi, termine che non dovrebbe descrivere la relazione tra studenti, ma, se non amici, compagni. Condividere tra di noi, abbattendo quelle barriere invisibili, ma potenti e spesso invalicabili, tra studenti e docenti, facendo capire a loro, anzi a tutti noi, che non siamo su opposti fronti nel sistema accademico: ruoli, doveri e responsabilità differenti, ma nessuna gerarchia dovrebbe avere cittadinanza nell’università. Soprattutto, una sana condivisione invece di una competizione, spesso tossica e spesso truccata, nella ricerca di un’eccellenza spesso ingannevole e spesso falsa. Un ecosistema universitario collaborativo e incoraggiante. Sostenibile. Condiviso. Share.
Volevo che coinvolgesse il divertimento, che migliora non solo l’umore, ma anche l’insegnare e l’apprendere. Secondo una regola non scritta (almeno fino ad ora), se il professore si diverte, anche gli studenti, non importa se in un’aula di un seminterrato o sulla cima di una collina, si divertono, assimilando e ricordando di più, più a lungo, più in profondità. Dopo tutto, gli animali più intelligenti sono quelli che sanno, e desiderano, giocare: cani, gatti, delfini, scimmie, lontre. E, comunque, passare sei giorni formali, 24/7, in assetto da lezione frontale e rapporti tradizionali, sarebbe stato assurdo e cupamente duro. Una durezza sterile, e debole, non la durezza, che non nega divertimento e soddisfazione, che cercavo. Enjoy.

Per gentile concessione della Casa editrice Bonomo.