Particolare dalla copertina.

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La realtà al tempo dei quanti. Einstein, Bohr e la nuova immagine del mondo

di Federico Laudisa

28 gennaio 2020
Versione stampabile

La meccanica quantistica ha una posizione unica nella storia della scienza. Essendo parte della famiglia di teorie scientifiche che hanno arricchito la cultura occidentale dal XVII secolo in poi, dovrebbe porsi l’obiettivo di descrivere una realtà in qualche modo «oggettiva» e indipendente da chi la osserva; invece, la meccanica quantistica appare di fatto come la prima teoria scientifica che sembra mettere in dubbio l’esistenza stessa di questa realtà, almeno nelle forme in cui alcuni secoli di scienza ci avevano abituato a pensarla.

Nessuna teoria scientifica, per quanto rivoluzionaria e capace di cambiare l’immagine del mondo che ci circonda, era arrivata a tanto. È per questo motivo che la meccanica quantistica ha avuto un effetto così dirompente anche in filosofia, dando vita – fin dai suoi albori, negli anni venti del Novecento – a un dibattito serrato sull’idea stessa di realtà fisica. A cento anni di distanza, la questione sembra tutt’altro che chiusa; ancora oggi le discussioni continuano, in forme rinnovate, nel mondo scientifico e filosofico internazionale ormai globalizzato, dal canadese Perimeter Institute for Theoretical Physics alla Templeton Foundation, fino agli istituti di fisica di Hong Kong o Bangalore. 

In questo libro, denso e accurato, Federico Laudisa ricostruisce il dibattito sull’immagine del mondo fisico nella fase di nascita e consolidamento della meccanica quantistica, delineando l’evoluzione delle idee relative al nascente mondo quantistico e alle implicazioni filosofiche che ne sono derivate, con una particolare attenzione alle assunzioni epistemologiche presenti in modo esplicito o implicito, ma senza dimenticare l’ambiente storico nel quale le discussioni hanno preso forma.

La realtà al tempo dei quanti è un lavoro di ricerca unico, in grado di analizzare la più sorprendente delle teorie della fisica e la più fondamentale delle domande della filosofia con invidiabile competenza in entrambi i campi. Una sintesi mirabile tra le due culture.

Federico Laudisa è professore associato presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento

Dal capitolo 1: I metodi della scienza, l’immaginazione della filosofia (pag. 25-28)

Nello sviluppo del pensiero filosofico e scientifico occidentale sulla scala dei millenni, il dialogo tra scienza e filosofia ha rappresentato un fil rouge costante, capace di produrre esiti culturali di valore assoluto. Da un lato, infatti, per una larga parte delle grandi figure della filosofia occidentale di tutti i tempi la scienza ha rappresentato non soltanto un’ispirazione di primo piano ma anche un’area alla quale fornire talvolta contributi diretti: dalle riflessioni aristoteliche in fatto di zoologia e biologia alle ipotesi cosmologiche di Immanuel Kant, passando per la geometria analitica di Cartesio e il calcolo differenziale di Leibniz. Per converso, numerosi tra i maggiori scienziati moderni e contemporanei hanno manifestato piena consapevolezza della portata filosofica delle teorie che andavano costruendo. Nel caso della fisica moderna la stragrande maggioranza dei personaggi più influenti – da Galileo a Poincaré, da Newton a Planck, da Boltzmann a Maxwell – ha svolto la sua attività percorrendo con geniali intuizioni e sottili analisi concettuali tanto il territorio della fisica quanto quello della filosofia, incluse quelle regioni di confine nelle quali domande fondamentali nate come scientifiche acquisiscono risonanze concettuali altrettanto importanti. Almeno per le grandi figure scientifiche di area austro-tedesca tra XIX e XX secolo, questa circostanza è stata certamente favorita anche da una circostanza oggettiva, vale a dire la solida preparazione umanistica prevista dai sistemi educativi del tempo e maturata anche da chi si avviava a una carriera scientifica: come ha scritto lo storico della fisica Gerard Holton, «per un grande scienziato non era affatto normale affrontare i complessi problemi inerenti al proprio campo di ricerca senza provare alcun interesse o ignorando completamente la filosofia.» 
Un esempio particolarmente luminoso, anche se certamente non l’unico, è naturalmente Albert Einstein, la cui frequentazione dei testi filosofici è stata costante, fin dagli anni della giovinezza, nei quali si riuniva con gli amici Konrad Habicht e Maurice Solovine nell’Accademia Olimpia: era il nome scherzoso con cui i tre chiamavano i loro incontri periodici, nei quali discutevano di fisica, filosofia e letteratura davanti a un buon bicchiere. A fare una lista degli autori letti dal giovane Einstein, e spesso riletti in anni successivi, si incontra una buona fetta della tradizione filosofica (oltre che scientifica) occidentale: nell’Accademia Olimpia si discuteva di Spinoza, Galileo, Hume, Kant, Mill, Mach, Riemann, Dedekind, Avenarius, Poincaré, nonché – sul versante letterario –Sofocle, Racine, Dickens, Cervantes. Superfluo ricordare la fecondità di una simile Bildung. Due tra i principali studiosi dell’opera scientifica complessiva di Einstein, Michael Janssen e Christoph Lehner, hanno giustamente scritto che in una visione retrospettiva più generale «pochi metterebbero in dubbio che Einstein è stato il più grande filosofo naturale del XX secolo» : accanto alla formulazione di due dei pilastri della fisica contemporanea come la relatività e la teoria quantistica, egli ha dedicato ampio spazio alla riflessione sugli aspetti epistemologici e metodologici della fisica e le sue teorizzazioni filosofiche sulla natura delle teorie fisiche hanno influenzato in modo significativo grandi filosofi della scienza come Moritz Schlick, Rudolf Carnap, Hans Reichenbach o Karl Popper (solo per citare i più celebri e studiati).
La relazione tra fisica e filosofia, tuttavia, non è naturalmente una questione rilevante soltanto per la storia della scienza. Proprio la crescente autorevolezza acquisita dalla fisica nei secoli, nonché la sua implicita autocandidatura a essere la scienza che ha l’ultima parola su quali dovrebbero essere le strutture “fondamentali” della realtà naturale, hanno spinto la fisica a proporre teorie, ipotesi e rappresentazioni generali del mondo sulle quali i filosofi non possono non avere qualcosa da dire. Se la relazione scienza/filosofia non è quella evocata nei termini un po’ tranchant degli scienziati ricordati sopra, quale forma assume?
La questione dei rapporti tra scienza e filosofia è naturalmente una questione complessa, a cominciare dal fatto che la distinzione disciplinare e professionale tra le due aree inizia a consolidarsi effettivamente nel mondo occidentale soltanto a partire dal XVIII secolo. Una visione a mio avviso equilibrata è stata proposta dal filosofo della scienza statunitense Clark Glymour, secondo il quale dovremmo partire non tanto da definizioni – di fatto impossibili – di scienza da un lato e filosofia dall’altro, quanto da una serie di domande: «Cos’è una spiegazione scientifica?», «Quali sono i limiti della conoscenza?», «Cos’è una dimostrazione?», «Cos’è un calcolo?», «Cosa significa che i fenomeni obbediscono a relazioni causali?», «Cos’è una legge naturale?», «Cos’è il linguaggio», «Cos’è la mente?» e via di seguito. Che tipo di domande sono? Chi o che cosa esattamente dovrebbe incaricarsi di trovare una risposta?

Queste domande hanno qualcosa a che fare con la fisica o la psicologia (o con la matematica o la linguistica), ma non si trova risposta a domande simili in un manuale dedicato a queste materie. In qualche senso queste domande paiono troppo fondamentali per trovare risposta nella scienza; sembra un tipo di domande per rispondere alle quali non siamo capaci di stabilire un programma dettagliato di osservazioni ed esperimenti. Tuttavia, le domande non paiono oziose: a seconda di come rispondiamo, la ricerca in matematica, in fisica, in psicologia o nelle altre discipline scientifiche sarà orientata in modo molto differente (C. Glymour, Dimostrare, credere, pensare. Introduzione all’epistemologia, Raffaello Cortina, Milano, 1999, p.4).

La proposta di Glymour configura una relazione per così dire a due facce tra scienza e filosofia. Domande come queste, cioè, nascono inequivocabilmente dentro le teorie scientifiche ma finiscono per forzarne i limiti e richiedere per il loro approfondimento un’analisi che sembra dover ricorrere inevitabilmente alla cassetta degli attrezzi dei filosofi. Siamo tutti d’accordo che la fisica dell’atmosfera fornisce una spiegazione della dinamica dei venti che è incomparabilmente migliore di quella che potremmo ricavare dalla lettura dei poemi omerici: la prima è “scientifica”, la seconda no. Se cerchiamo però di fornire una motivazione robusta di questa credenza, ci accorgiamo di dover entrare in territori filosofici, nei quali siamo chiamati a costruire argomenti concettuali a favore della nostra tesi, per esempio decidendo cosa intendiamo esattamente per spiegare. Talvolta, inoltre, assistiamo anche al processo inverso, mediante il quale alcune di queste domande – dotate a quel punto di una caratterizzazione filosofica più sofisticata – sembrano mostrare quasi retroattivamente la capacità di stimolare a loro volta la crescita del pensiero scientifico in senso stretto. Il tentativo di rispondere in modo rigoroso alla domanda «Cos’è una dimostrazione?» è all’origine della logica matematica moderna, una disciplina altamente formalizzata nonché insegnata e studiata in larga misura nei dipartimenti di matematica; analogamente, i tentativi di rispondere a domande come «Cos’è il linguaggio» o «Cos’è la mente?» – domande tra le più tipicamente filosofiche (dal Cratilo di Platone alle cartesiane Meditazioni metafisiche) –  hanno generato il grande programma di ricerca oggi noto sotto il nome di scienza cognitiva, uno dei più ambiziosi e appassionanti della scienza odierna, che coinvolge svariate aree di ricerca, dalla psicologia alla biologia, dall’informatica alle neuroscienze.

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