Immagine tratta dalla copertina del volume

In libreria

PER UN'ETICA DELLA RESISTENZA. RILEGGERE PRIMO LEVI

di Massimo Giuliani

30 novembre 2015
Versione stampabile

È possibile parlare di Primo Levi come filosofo? Forse è addirittura necessario, in tempi di scontro di civiltà. Ma forse è anche un atto scientificamente dovuto. In Italia, infatti, Levi è confinato al ruolo di testimone della Shoah, mentre all’estero, soprattutto in America, viene studiato e apprezzato nella pienezza della sua complessa figura intellettuale. I saggi raccolti in questo volume si ripropongono appunto di porre rimedio a questa curiosa schizofrenia critica, affrontando un aspetto ancora poco indagato, almeno nel nostro Paese, dell’opera leviana: la riflessione etico-politica, chiamata a contrastare «le riserve di ferocia che giacciono in fondo all’animo umano», e a sostanziare le possibili vie di una salvazione che faccia leva sulla ragione, sulla cultura e sulla memoria. Dalle reazioni all’educazione fascista al riscatto dell’immaginazione, dalla fascinazione per la tecnologia alla rivalutazione del lavoro manuale: ripercorrendo questi snodi, il presente volume si propone di essere un’originale “introduzione all’opera di Primo Levi”, tesa a mostrare la ricchezza tematica e la polisemica profondità, non solo dei suoi libri più conosciuti, ma anche delle sue prose minori e delle sue pagine meno lette, e oggi quasi introvabili. Ne esce un ritratto pluridimensionale di un classico della letteratura e del pensiero italiani. Di quel pensiero e di quella scrittura abbiamo bisogno, e nostalgia.

Massimo Giuliani è docente di Pensiero ebraico all’Università di Trento. Insegna anche Giudaismo presso la Fondazione Bruno Kessler (Trento). Ha conseguito il PhD presso l’Università ebraica di Gerusalemme e ha insegnato per alcuni anni negli Stati Uniti. È membro del comitato scientifico della Fondazione Maimonide (Milano).

Introduzione

I saggi da me raccolti su Primo Levi vorrebbero da se stessi attestare un percorso nell’opera e nei ‘mondi’, al plurale, di un autore ormai entrato nel pantheon della canone occidentale. La testimonianza di Primo Levi è inclusa in una recente lista, a cura del critico letterario Piero Dorfles, dei “cento libri che rendono più ricca la nostra vita” perché fanno parte di un ineludibile patrimonio comune, mentre lo studioso dell’università di Oxford Andrew Taylor annovera "Se questo è un uomo" tra i “cinquanta libri che hanno cambiato il mondo”. Non bastasse il gioco delle classifiche, dopo il proliferare di scuole e vie cittadine dedicate allo scrittore ebreo-piemontese e oltre una significativa opera cinematografica , in questi anni si sono moltiplicati luoghi e momenti dedicati al suo messaggio e alla sua personalità, a cominciare dal duplice Centro Primo Levi di Genova e di New York e soprattutto dal Centro internazionale di studi Primo Levi, di Torino, catalizzatore e promotore quest’ultimo non solo di un vasto archivio ma anche di eventi, lectures (destinate alla pubblicazione), mostre, convegni, antologie tematiche e nuove traduzioni in molteplici lingue. Al riguardo, a partire dall’autunno del 2015 verrà avviato il grande progetto di traduzione in inglese dell’opera omnia primoleviana,  con apparati storico-critici, presso l’editore Norton Liveright, a cura e coordinamento di Ann Goldstein, operazione che da sola offre la più alta conferma della fortuna culturale di Primo Levi in Nord America (celebrato a suo tempo da scrittori come Saul Bellow e Philip Roth). 
È da quella sponda dell’Atlantico che la sua immagine rimbalza verso di noi, riflessa in uno spettro di sfumature e rifrazioni che ci stimolano (o meglio ci costringono) a valutare se, fino ad ora, lo abbiamo davvero letto nella sua complessità linguistica e nella sua profondità etica, con l’attenzione che merita un intellettuale poliedrico e di spessore filosofico, sebbene da noi abbia scarsa circolazione nei corsi di laurea in filosofia dove ancora la fisicità e la manualità non rimano con teoria e pensiero. Proprio tale nesso, invece, è quel che hanno intuito ed esplorato in molti dipartimenti di humanities oltreoceano, dove materia e spirito, scienza e letteratura, sperimentazione e teoretica non si escludono ma anzi si cercano e si fecondano a vicenda. “Spesso credo di pensare più con le mani che con il cervello” confessò una volta Primo Levi, dalle cui mani sono uscite, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, molte ‘sculture’ di filo di rame smaltato, lavorate con il materiale ordinario (di scarto, anzi di riciclo) della sua professione di chimico. Bastino questi accenni per comprendere come abbiamo ancora da capire, da approfondire e da apprezzare “i mondi di Primo Levi”, che fanno da sfondo e da chiavi ermeneutiche delle sue opere.
Nei testi che seguono sono tornato a leggere il messaggio etico, filosofico e politico ad un tempo, che Levi ha distillato dalla sua esperienza di ebreo sopravvissuto, di tecnico in una fabbrica di smalti, di intellettuale affascinato dalle nuove tecnologie e di artigiano-scultore di idee, di parole e di materiali, la materia delle idee e delle parole, se mi è permesso l’ossimoro. Tale messaggio non fu affidato a formule criptiche o avvolto in stili ermetici. Venne lanciato piuttosto in modo diretto, quasi ‘democratico’, a chiunque volesse ascoltare e intendere. Ecco perché colpisce la sua reiterazione anche in pagine effimere e in frammenti resi oggi di estremo valore dallo sforzo di non disperdere nulla del suo magistero. Mi riferisco qui, ad esempio, alla riposta apparsa sul quotidiano La Stampa  del 3 dicembre 1959, a una lettera scritta dalla figlia di un fasciata, una ragazza che, dopo aver visitato (per tre volte) una mostra sugli orrori dei campi di concentramento e di sterminio nazisti, “vorrebbe sapere la verità”. E Primo Levi, senza retorica e senza compiacimenti, si ferma a rispondere nel senso forte del termine e a spiegare come “non c’è modo di dubitare della verità di quelle immagini” perché “quelle cose sono proprio avvenute , e sono avvenute così”. Pertanto “la verità non si deve nascondere. La vergogna e il silenzio degli innocenti possono mascherare il silenzio colpevole dei responsabili ed eludere il giudizio storico”. E già i termini ‘responsabili’ invece di ‘carnefici’ e ‘giudizio storico’ invece di ‘sentenze’ o ‘condanne’ la dice lunga sull’approccio, sul registro e sull’ottica di questa testimonianza, che nella lettera si chiude ricordando come le immagini che documentano le atrocità nazista hanno lo scopo di “dimostrare quali riserve di ferocia giacciano in fondo all’animo umano e quali pericoli minaccino, oggi come ieri, la nostra civiltà” . Sia questo messaggio, senza chiose, la porta della nostra rilettura di Primo Levi.

Per gentile concessione di Quodlibet editore.