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Vestire a modo altrui

di Cecilia Natalini

1 aprile 2020
Versione stampabile

L’antica questione della disciplina suntuaria al cui primo impulso, nel mondo occidentale, contribuisce la legislazione romana, subisce un’importante evoluzione durante il passaggio dal Medioevo alla modernità.
Mentre la riflessione giuridica medioevale considera ‘scandaloso’ il diritto degli ordinamenti giuridici di ius proprium limitativo degli ornamenti - diritto scandaloso perché pregiudizievole della tranquillità delle relazioni matrimoniali e familiari legate alla scelta dei mores personali - l’Età moderna regola e controlla, attraverso le forme preventive ed astratte della legge, lo stile di vita dei cives.
Questa evoluzione si compie attraverso l’impiego di istituti giuridici diversi (ius maritorum, officium iudicis, iudex arbiter, publica utilitas), opportunamente interpretati e tutti ispirati al praeceptum iuris ‘honeste vivere’

Nella prima fase bassomedioevale, preparatoria della questione suntuaria del secolo XIII, la veste appartiene ai simboli e la sua fattura corrisponde alla dignitas della persona, cioè a dire al ruolo che essa svolge in seno alla comunità, non comporta invece l’individuazione di uno status giuridico […].
Al fondo dello sviluppo della disciplina suntuaria vi è dunque non tanto il problema economico quanto piuttosto il lento processo di istituzionalizzazione dei poteri di fatto. Da questo punto d’osservazione si spiega perché soltanto dopo il Duecento si affacciano le prime forme disciplinatrici del sumptus, miste di religione e diritto, forze entrambe morali concorrenti alla messa a punto dei contenuti del potere.
Le fonti teologiche, dottrinali e statutarie nelle quali sono riposti gli elementi ideali ed i criteri di riferimento prescelti dalle civitates medioevali per ordinarsi custodiscono il modello cui la comunità aspira e al quale affida la tutela dei propri valori fondanti. Queste fonti permettono di far luce sulle ragioni dell’inefficacia talora assidua delle disposizioni medioevali suntuarie messe a punto dalla numerosissima disciplina statutaria per restringere gli ornamenti.
Dagli ambienti giuridici si alza la voce che fa risuonare le ragioni del diritto contro quelle forme di restrizione che finiscano per invadere un campo – una competenza, diremmo oggi – sottratto all’intervento dei poteri pubblici. A questo riguardo risulta particolarmente interessante seguire il ‘cambio di rotta’ che si sviluppa, nello stretto giro di anni che intercorre, all’incirca a metà del 1300, tra l’attività del canonista Uberto da Cesena e la trattatistica del grande Bartolo da Sassoferrato, intorno all’elaborazione delle motivazioni giuridiche che si oppongono alla disciplina suntuaria.
Il canonista sfrutta la questione dello ius maritorum, dal quale discende che soltanto al marito spetta la valutazione dell’abbigliamento della moglie. Ne consegue che le limitazioni suntuarie legittimamente disposte dall’autorità morale del vescovo, non trovano possibilità di essere portate ad effetto in tribunale: esse sono valide ma restano inefficaci, giacché l’eventuale sentenza di condanna data sulla base della legislazione statutaria non vale nei confronti del marito cui soltanto spetta di decidere circa l’ornatus della moglie. Diversamente, il civilista Bartolo ragiona sull’arbitrium del paterfamilias. L’intera questione è ricondotta sotto la categoria dei mores dei singoli della civitas, valutabili dal giudice soltanto nell’ambito dei propri poteri equitativi, non invece nell’esercizio del proprio officium. Il giudice dunque non avrebbe potuto giudicare tenendo a riferimento la norma statutaria suntuaria, ma con riferimento al principio honeste vivere: ancora una volta la norma statutaria risulta messa fuori campo!

A dare impulso alla riflessione giuridica, in verità, è Tommaso d’Aquino che, in linea con l’antica posizione di Isidoro di Siviglia circa le vesti e l’ornatus, ritiene che non l’ornamento ma l’uso di esso – valutato in relazione alla condizione della persona e ai mores locali – possa determinare un comportamento riprovevole. Sennonché, la questione della dignitas della persona, negli sviluppi successivi, risulta di fatto ‘un’arma a doppio taglio’. Mentre nel Tardomedioevo l’apprezzamento della dignitas personale era servita per fermare l’intervento dei poteri pubblici in materia suntuaria, già alle soglie della prima età moderna quella argomentazione diventa l’occasione per irrigidire le dignitates cittadine nei ceti, per cominciare a distinguere in forma ‘giuridico-amministrativa’ un diverso abbigliamento consono alle differenze cetuali delle persone. A sostegno di questa nuova impostazione del problema suntuario si affaccia la motivazione economica: i poteri pubblici devono sorvegliare che la comunità non si impoverisca. In buona sostanza, gli ornamenti non sono più una questione di sumptus ma una questione di luxus.

Cecilia Natalini è professoressa associata presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento.

Dalle pagine 25, 27, 60, 126, 168

L’ornamento prezioso mette l’uomo in pericolo, soprattutto quando ogni speranza umana è riposta nella ricchezza e quando quest’ultima (potentia temporalis) diviene di maggior rispetto dell’integrità morale (sanctitas). Appare subito evidente che la valenza etica del cultus, in Isidoro, non percorre i medesimi sentieri dei Padri tardoantichi. Non v’è cenno alla questione della pudicizia e del peccato. La preoccupazione riguarda piuttosto la vanità del cultus di fronte alla possibilità di guadagnare la salvezza.
Né vi è disprezzo per la ricchezza, in sé considerata. Ciò che conta è invece l’atteggiamento morale con cui ci si serve di essa [..] 
La questione dell’uso delle ricchezze, tra cui si annovera il cultus pretiosus con cui Isidoro apre la propria riflessione, è in realtà decisiva e centrale. Fino al punto che il povero sarà condannato persino più aspramente del ricco se impiegherà tutte le proprie energie (mens) per procurarsi beni terreni. Inoltre, tanto il bene quanto il male possono essere utilizzati ciascuno in modo buono o in modo cattivo: la qualità dell’uso produce, rispetto all’entità di partenza, un’entità ulteriore qualificabile come malum oppure come bonum per l’uomo. […]

La dottrina isidoriana risulta essere al fondo della nuova riflessione tomista per più di una ragione. Innanzitutto, da Isidoro è ritratta l’idea secondo cui i beni materiali non sono identificabili come bonum o malum. È piuttosto l’uso buono o cattivo a generare la qualificazione degli artificia umani. Similmente, secondo Tommaso, l’ornamento esteriore non può generare né virtù né vizio[… ] La ragione dell’estraneità dell’ornatus all’ambito della morale deriva dal fatto che esso non è innato, non proviene dalla natura (Isidoro: non sit a natura; Tommaso: non est in nobis a natura), tant’è che varia con il variare dei tempi e dei luoghi. Esso peraltro riguarda la naturalis ratio[…].

Sicché l’ornamento non eccessivo, consono allo status della persona, ben può essere considerato come pertinente alla ‘natura’ del soggetto, cioè vestis. Al contrario l’abbigliamento arricchito di artifici umani oltre la misura consona alla condizione personale, non è vestis ma cultus […].

 La soluzione qui proposta mostra di voler mettere in discussione l’esperienza giuridica pre-moderna. In verità, per certi versi, è evidente la derivazione dalla dottrina medioevale laddove Bodin sviluppa, per innovarla, la questione della necessità di diversificare la posizione giuridica dei soggetti in ragione della condizione. Bartolo, come sappiamo, ne era stato l’ideatore, a partire dalla testimonianza giudiziale: il giudice avrebbe dovuto soppesare il costume della persona tenuto conto della condizione e dei mores della civitas. Bodin approfondisce questo aspetto, fino ad offrire una sorta di teorizzazione degli elementi che concorrono nella determinazione della pena.

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