© Foto Natalia Tedde, che si ringrazia

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Lottare per il diritto. Ritratti di giuristi umanisti del ’900

di Paolo Carta

23 giugno 2020
Versione stampabile

L'umanesimo è un fenomeno distintivo e costante dell'intera storia culturale italiana, generatore di una visione del mondo che si compie e si rinnova incessantemente attraverso gli studi. La curiosità accompagnata dal metodo, la volontà di oltrepassare le barriere tra diversi ambiti scientifici, sono solo alcune delle caratteristiche che contraddistinguono gli umanisti evocati nei saggi raccolti nel volume. Calamandrei, Satta, Gramsci, Pigliaru, Trentin furono tutti esponenti esemplari dell'umanesimo italiano nel Novecento, personalità capaci di incidere in modo determinante negli studi così come nella sfera pubblica. Dalle loro pagine giunge ancora forte l’invito a non smettere mai di amare il mondo più di noi stessi, e a lottare per difenderlo, anche attraverso il dialogo tra saperi diversi, come la letteratura, la politica, il diritto, la filosofia, la scienza e l’arte. Una condizione che il loro specifico umanesimo considerava indispensabile per affinare il pensiero critico, per superare l’aridità dei formalismi, così come le comode e facili dicotomie nel diritto e nella politica.

Paolo Carta è professore ordinario di Storia delle dottrine politiche presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento

Da Antonio Pigliaru. Pluralismo e lotta  per il diritto ( pag. 99-110)

Antonio Pigliaru (1922 - 1969) con La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico (1959) ha contribuito in modo decisivo alla riflessione giuridica sulla pluralità degli ordinamenti e sul rapporto tra consuetudine e legge. Intellettuale vivace, Pigliaru è stato soprattutto un testimone attento e partecipe delle vicende storiche di un’isola, la Sardegna, in un’epoca caratterizzata da bruschi arresti e repentine accelerazioni.
La vendetta barbaricina è un’opera per taluni suoi aspetti pionieristica, divenuta quasi un classico negli studi giuridici e antropologici. L’idea di mettere alla prova della realtà concreta le elaborazioni dottrinali sulla molteplicità degli ordinamenti, studiando le consuetudini della comunità pastorale dell’entroterra sardo, maturò nel corso delle sue conversazioni con Giuseppe Capograssi. Lo studio gli permise di giungere a conclusioni personalissime e particolarmente efficaci, tali da suscitare ancora oggi un ampio dibattito internazionale. Peraltro, il valore del lavoro fu riconosciuto immediatamente dopo la stampa della prima edizione: Eric J. Hobsbawm, ad esempio, lo utilizzò a più riprese nei suoi studi sui Banditi (1969) e sui Rivoluzionari (1972).

Pigliaru proponeva di considerare il fatto della vendetta, a prima vista così manifestamente antigiuridico, illecito, mosso da ragioni strettamente private, come parte di un vero e proprio codice vigente non scritto di una particolare società. Della comunità barbaricina, nella quale era nato, Pigliaru tentò di individuare le consuetudini e le regole, le sue leggi fondamentali, che non potendo essere disattese, se non a patto di sovvertire l’intero ordine giuridico, in circostanze particolari erano destinate a entrare in conflitto con l’ordinamento statale. Ai suoi occhi il sistema penale, mediante il quale l’ordinamento particolare tutelava sé stesso e garantiva la propria perpetuità, prevedendo il dovere «giuridico» della vendetta come riparazione «necessaria» all’offesa subita, riusciva determinante anche per la comprensione di quel che Salvatore Satta aveva già chiamato «il mistero del processo». Era infatti nel momento processuale, che la consuetudine e la legge formalizzavano il loro «incontro»; e solo in quel contesto la consuetudine poteva «conoscere» la legge. Nel riconoscimento della legittimità del processo, la comunità determinava con maggiore incisività la differenza tra il proprio ordinamento e la cosiddetta società dei ladroni. Non si trattava dunque di comprendere l’ordinamento di una società criminale, che pure possiede e obbedisce a proprie regole; in quel caso, infatti, l’ordinamento cessa infatti di essere un ordine umano che ha in sé stesso il suo fine e che è fine a sé stesso, divenendo piuttosto uno strumento, integralmente destinato al perseguimento di fini criminali. La comunità della quale Pigliaru si occupava era semplicemente una comunità di vita, con i suoi costumi, la sua cultura e un suo processo storico. La dimensione giuridica rivelava l’essenza più intima della comunità, che poteva apparire arretrata, poiché sperimentava sulla propria concreta esistenza gli effetti dell’arresto dell’iniziativa umana nella storia. Era una comunità che adottava la consuetudine come propria costituzione e che richiedeva di essere capita e interpretata, indipendentemente dal giudizio che su di essa era possibile esprimere, se osservata dalla prospettiva di un ordinamento tipico, come lo Stato.

La vendetta, intesa non come pratica individuale, ma come cifra distintiva di un’intera comunità, era però solo un momento dell’ordine giuridico: «Il giudizio giuridico che la comunità barbaricina pone in essere, nello sforzo quotidiano di restare se stessa … non significa negazione della natura di ordinamento all’ordinamento dello Stato, significa che l’ordinamento statuale è conosciuto come ordinamento incapace di assicurare alle esperienze individuali, in cui quotidianamente si svolge la vita della comunità barbaricina, di essere se stesse». Tale atteggiamento incideva nel profondo del corpo di norme consuetudinarie nelle quali si inseriva la pratica della vendetta. Pigliaru tentava di trascrivere le regole «con massima docilità nei confronti delle cose», evitando accuratamente sia di costringere la consuetudine in un codice, sia di cadere nel tranello di chi ricerca ad ogni costo la completezza di un ordinamento. Per lui era necessario liberarsi preliminarmente dalla fuorviante ed erronea opinione che considerava la completezza dell’ordinamento unicamente in relazione al suo contemplare «tutti i rapporti della vita sociale, tutte le azioni umane, o per comandarle o per vietarle o per renderle lecite». La comunità barbaricina andava considerata semplicemente come «una comunità di vita, una comunità storica», contemporanea unicamente a sé stessa. In possesso di un suo sistema etico, che prescindendo dalla questione penale, non sperimentava alcun conflitto con le norme dello Stato, quella particolare società appariva come un vero ordinamento giuridico, completo, nel significato proposto nella celebre formulazione di Santi Romano. Ogni ordinamento può dirsi completo, infatti, qualora lo si consideri unicamente nell’ambito della sua esperienza storica. Solo fuori da quest’ambito, cioè osservandolo dalla prospettiva di un’altra cultura, o in termini comparatistici, nella sua relazione con altri ordinamenti o con un ordinamento ideale, è possibile dichiararne l’incompletezza. Pigliaru tentò di cogliere le peculiarità di questa vita giuridica, chiarendo, e mai giustificando, fenomeni che prima di allora erano stati a lungo fraintesi o male interpretati. Una strada che in seguito avrebbero percorso altri studiosi, a lui in qualche modo vicini, come Laura Nader o Carol J. Greenhouse.

Per gentile concessione della Casa editrice Ronzani.