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IMPRENDITORI CERCASI. INNOVARE PER RIPRENDERE A CRESCERE

di Sandro Trento e Flavia Faggioni

9 febbraio 2016
Versione stampabile

La crescita economica dipende sempre meno dal semplice aumento della quantità di capitale e di lavoro utilizzati e sempre più dalla capacità di usare intelligenza e conoscenza. La risorsa strategica, che segna la differenza tra i sistemi dinamici e i sistemi statici o declinanti, è la nuova imprenditorialità innovativa.
Un luogo comune vuole che l’Italia sia un paese a forte vocazione imprenditoriale e che le nostre difficoltà di crescita dipendano quasi soltanto dagli ostacoli di natura pubblica: eccessiva tassazione, pubblica amministrazione inefficiente, mancanza di infrastrutture. In realtà nessuno dei prodotti di successo ad alto contenuto di innovazione, in questi ultimi vent’anni, è stato progettato e prodotto in Italia. Ecco allora che non basta una partita Iva per essere imprenditori ma occorre un progetto originale. La rivoluzione industriale in corso esige una continua innovazione di prodotto e l’adozione di nuovi modelli di business, strumenti indispensabili per assicurare la sopravvivenza e la crescita delle imprese, e soprattutto per promuovere la ripresa economica del paese.

Sandro Trento è professore ordinario di Economia e gestione delle imprese presso l’Università di Trento dove dirige anche il CLab, laboratorio di imprenditorialità. Collabora con «Il Fatto quotidiano». Per il Mulino ha pubblicato «Il capitalismo italiano» (2012) e «Il governo dell’impresa» (con G. Bosi, 2012). Flavia Faggioni ha studiato economia presso l’Università di Trento, la Technische Universität di Dresda e l’Università di Bologna. Si occupa di economia delle imprese, di economia sociale e sanitaria.

Introduzione

Le economie avanzate sono da anni in profondo e continuo mutamento. Una serie di processi in atto conducono a cambiamenti sia della domanda sia dell’offerta. Nuove tecnologie rendono possibile sviluppare nuovi prodotti e servizi in tempi molto brevi. I consumatori sono diventati sempre più esigenti e richiedono prodotti personalizzati. Internet ha cambiato il nostro modo di vivere e non solo di lavorare e di consumare. In generale, è cresciuto il grado di incertezza nel quale tutti gli attori economici devono vivere. La crescita economica dipende, oramai, soprattutto dalla capacità di usare intelligenza e conoscenza, e sempre meno dal semplice aumento della quantità di capitale e di lavoro utilizzati. In tale contesto, la risorsa strategica, che segna la differenza tra i sistemi dinamici e i sistemi statici o declinanti, è la nuova imprenditorialità innovativa. L’obiettivo che ci poniamo è di richiamare l’attenzione proprio sul ruolo degli imprenditori. Per lungo tempo la figura dell’imprenditore è stata trascurata dagli studiosi e data per scontata anche dagli osservatori non accademici.
Vi è oggi una crescente attenzione sul tema dell’imprenditorialità. Si moltiplicano gli eventi dedicati alle start up, si diffondono corsi di imprenditorialità e si parla sempre più di «economia imprenditoriale» per descrivere un sistema nel quale nuovi soggetti, con date caratteristiche, entrano sui mercati e innovano. Vale la pena allora interrogarsi su che cosa significhi davvero fare l’imprenditore, chiedersi se sia sufficiente mettersi in proprio per essere un imprenditore oppure se l’attività imprenditoriale vera e propria non sia quella che presuppone innovazione.
È infatti l’imprenditorialità innovativa l’ingrediente che sta alla base della rivoluzione sociale in corso negli Stati Uniti, ma anche in Israele, in Svezia o in Cile. In questo dinamico scenario globale l’economia italiana è invece intrappolata in una condizione di bassa crescita e scarsa innovazione (nel senso più ampio del termine). Il dibattito sulle difficoltà di crescita si è soffermato, negli ultimi quindici anni, su due tratti strutturali del nostro sistema produttivo: la ridotta dimensione media delle imprese e la prevalente specializzazione in settori maturi. Sono state adottate quindi politiche pubbliche di volta in volta orientate a proteggere e sostenere i campioni nazionali o a favorire la crescita media delle imprese. Il mito della grande impresa in verità è un modello del tempo passato. Le nuove tecnologie e i mercati globali consentono infatti soluzioni organizzative nuove e articolate. I processi innovativi non sempre sono confinati nel perimetro della grande azienda, ma si sviluppano attraverso sciami di nuovi imprenditori e soggetti pronti a entrare sui mercati. Il problema sul quale interrogarsi è piuttosto quello della (insufficiente) natalità di nuova imprenditorialità innovativa. Anche la questione della specializzazione settoriale va letta in chiave diversa. Le opportunità di impiego delle nuove tecnologie sono in realtà ampie anche nei settori tradizionali. Nei paesi avanzati i settori che direttamente producono tecnologie digitali sono sì più sviluppati che in Italia ma rappresentano quote molto limitate del prodotto nazionale. La migliore performance in termini di produttività e di crescita di tanti altri paesi avanzati è dovuta soprattutto alla loro capacità di utilizzare appieno le nuove tecnologie in tutti i settori, dal commercio ai trasporti, all’industria. Il problema italiano non è un problema settoriale o almeno non tanto un problema settoriale, al quale rispondere riesumando lo spettro della cosiddetta politica industriale, vale a dire affidando alle burocrazie pubbliche fondi per selezionare i «settori vincenti» (esperienza che abbiamo sperimentato in passato con risultati deludenti). La questione è capire come mai non sappiamo sfruttare le nuove opportunità offerte dalla rivoluzione digitale e dalla globalizzazione dei mercati.
Dovremmo chiederci non solo perché siamo poco presenti nei settori high tech, ma anche 9 come mai non siamo capaci di sviluppare società che operano nel settore dei bed and breakfast tipo Airbnb. Come mai non siamo in grado di sviluppare società come Uber, che opera nel trasporto urbano. Come mai non siamo stati in grado di vendere libri in rete e di far nascere una nostra Amazon. Tutti settori tradizionali nei quali siamo presenti e non high tech.
L’innovazione è oggi la chiave di volta della competitività in tutti i mercati e gli imprenditori sono i soggetti che possono e sanno usare e produrre innovazione commercialmente valida. Secondo l’economista statunitense William Baumol, mentre la quota di persone imprenditoriali sul totale della popolazione non varia molto tra un paese e un altro, il contributo produttivo dell’attività imprenditoriale dipende sostanzialmente dall’allocazione degli imprenditori tra attività «produttive», come l’innovazione, e attività altamente «improduttive», come, ad esempio, la rendita o peggio ancora la criminalità organizzata. Questa ipotesi sembra essere particolarmente calzante per il caso italiano, dove vi è una grande quantità di lavoratori autonomi e di individui che nelle statistiche ufficiali sono definiti imprenditori, in quanto sono alla guida di un’impresa, seppur piccola, ma che in realtà non fanno molta «innovazione».
Molto numerose sono inoltre, nel nostro paese, le attività che godono di rendite (per via della scarsa concorrenza e della regolamentazione pubblica) a scapito di nuove attività innovative. C’è bisogno di un cambiamento profondo nel modo di operare delle imprese sui mercati. Ma c’è bisogno di nuovi imprenditori che non si limitino a copiare quanto viene già fatto dalle imprese presenti nel proprio territorio. Questo non è l’ennesimo libro sul declino italiano. Certamente l’Italia è un paese ricco di «persone imprenditoriali», dato l’altissimo numero di imprese piccole e piccolissime. Un alto numero di imprese però non significa necessariamente che esista una «cultura imprenditoriale».
L’imprenditorialità, in Italia, dovrebbe impiegare e produrre maggiormente l’innovazione, la ricerca e il cambiamento e questo non può avvenire senza una crescita adeguata delle imprese. Nel complesso in Italia vi sono grosse potenzialità per una crescita imprenditoriale, per un’imprenditorialità che sia 10 «più innovativa», più competitiva e più proiettata verso una concorrenza globale e non solo nazionale, ma gli ostacoli strutturali, politici e «di sistema» sono un freno imponente a tale processo. Un aspetto importante è quello dell’attitudine al rischio. Quanto è ancora diffuso da noi il sogno del lavoro dipendente? Quanto incidono sui comportamenti dei giovani le difficoltà di trovare finanziamenti adeguati a progetti innovativi? Ma quanto incide anche il ruolo forse troppo protettivo delle famiglie d’origine, l’attardarsi per troppi anni a vivere con i genitori? Altro fattore cruciale è il basso livello di fiducia che caratterizza il nostro paese e che impedisce la crescita dei progetti imprenditoriali confinandoli nello stretto ambito del controllo familiare. Questo libro intende fornire spunti su cosa sia l’imprenditorialità, su cosa sia un’economia imprenditoriale e sulla situazione italiana.
È una primissima riflessione, un primo sguardo che apre ovviamente lo scenario ad analisi più approfondite.

Per gentile concessione Il Mulino, 2016.