La mistica cristiana. Vol. 1. Particolare tratto dalla copertina

In libreria

La mistica cristiana. Vol.1

di Francesco Zambon

25 settembre 2020
Versione stampabile

Primo di tre volumi dedicati a uno dei campi di maggiore interesse dell’esperienza spirituale e religiosa, questo Meridiano raccoglie i testi più importanti della mistica tardo-greca e bizantina, di quella orientale siriaco-armena e della tradizione latina e italiana medievale, commentati e annotati dai più illustri studiosi di ciascuna area. L’introduzione generale al volume è di Francesco Zambon, direttore dell’intero progetto editoriale, nonché curatore egli stesso della terza e più cospicua sezione. Un’occasione pressoché unica per il lettore di compiere un viaggio in grado di condurlo direttamente alla radici della cultura cristiana antica e premoderna, con l’ausilio di strumenti critici e interpretativi d’eccellenza.

Francesco Zambon è professore emerito dell’Università di Trento

Dall’introduzione generale (pagg. LXVII-LXX)

Ma ciò che importa soprattutto comprendere è che nella poesia – quando si tratta di poesia mistica o di quella che nella modernità è stata definita «poesia assoluta» o «poesia pura» – i tropi hanno esattamente lo stesso ruolo che svolgono nella lingua del diario, dell’autobiografia, della confessione dei mistici, che in qualche modo tende verso la poesia (e talvolta, involontariamente, la raggiunge). Pozzi, si è visto, sostiene che l’ossimoro e la tautologia di questa lingua hanno un carattere radicalmente diverso da quello proprio della poesia e del discorso religioso ordinario. E questo è proprio ciò che avviene nelle forme di poesia di cui si è parlato, che tendono incessantemente verso tale frontiera. In primo luogo nella poesia propriamente mistica: basta pensare proprio al poeta studiato da Pozzi, Iacopone, con le sue ripetute dichiarazioni di insufficienza della parola a dire l’esperienza estatica (fino alla personificazione del Silenzio stesso che parla), i suoi ossimori del tipo inclusivo e perciò logicamente contraddittorio («oscura tenebra», «tacendo parlo», «udito senza udito»), l’equiparazione del proprio discorso alla balbuzie o al grido, la glossolalia (il «parlare escialenguato» della lauda 32), il lessico del totale annichilimento in Dio, tanto che il cielo supremo ha nome «No». Tuttavia questa tendenza del linguaggio a oltrepassarsi o a lacerarsi non è presente solo in un poeta come Iacopone, cui si è addirittura voluta negare la dignità di poeta per la violenta affettività della sua scrittura, ma è segretamente operante anche nella poesia mistica più limpida e dalla forma più rigorosa dal punto di vista letterario, come quella di Giovanni della Croce. Un esempio istruttivo è il verso del Cantico spirituale in cui la Sposa lamenta che, mentre ascolta tutti coloro che le parlano dello Sposo, la faccia quasi morire «un no sé qué que quedan balbuciendo» («un non so che che vanno balbettando»). Guillén commenta questo verso straordinario interpretando il balbettio come un parlare di Dio che non ha ancora raggiunto la perfezione della poesia: «Il nostro poeta non si accontenterà mai di “un no sé qué que quedan balbuciendo”. Questi famosi tre “que” – evidentemente volontari – esprimono nel modo più felice una tappa dell’esperienza reale che deve essere superata dalla poesia». Ma Giovanni spiega nel suo commento (vii 9), di cui pure Guillén cita qualche riga, che il balbettio rappresenta la irrimediabile insufficienza del linguaggio umano a esprimere l’essenza di Dio: «Sento che resta da dire un non so che che non si sa esprimere e qualcosa che non si conosce. Si manifesta all’anima un’orma sublime di Dio che rimane da investigare e un’altissima conoscenza di Lui che è impossibile esprimere (per questo l’anima lo dice un non so che)». Incastonando, con questa ripetizione dei tre que, in un endecasillabo perfetto dal punto di vista metrico e sintattico una sorta di mimesi del balbettio, Giovanni in realtà rappresenta proprio il suo linguaggio poetico che è solo balbettio rispetto a ciò di cui vorrebbe parlare. Quel balbettio è la sua stessa poesia, così mirabilmente evocata in un verso balbettante. Ed è abbastanza puerile voler distinguere il linguaggio della diretta confessione mistica da quello poetico aggrappandosi ai presunti condizionamenti cui quest’ultimo sarebbe sottoposto a causa del ritmo e della metrica. Questi non sono affatto delle «gabbie» che limitano l’espressione diretta, bensì delle energie profonde del linguaggio – una sorta di «canto» nel cuore del linguaggio – che al contrario lo riportano incessantemente alle sue fonti e lo rinnovano di continuo, sciogliendolo dai vincoli della significazione immediata e strumentale. Con Mallarmé, si può dire che il verso «di parecchi vocaboli rifà una parola totale, nuova, estranea alla lingua e quasi incantatoria»; liberando le parole dalla loro cattività nella catena ordinaria del discorso per ricondurle al loro «ritmo essenziale», il verso è quella parola in potenza edenica che «risarcisce del difetto delle lingue» e che proprio grazie al Nulla creatore di tale ritmo – gli spazi bianchi della pagina e la «sospensione» che, all’interno del verso stesso, ne crea il «ritmo totale», cioè il «poema taciuto» – mira direttamente al Mistero, all’«assoluta significazione», insomma alla «verità». Non vi è nel grande poeta, fosse pure della più sublime ispirazione mistica, dualismo fra inconoscibile esperienza interiore ed espressione lirica; la forma compiuta rivela quasi magicamente gli abissi dell’anima in modo molto più limpido e adeguato di quanto possano fare la confessione spontanea o lo sfogo immediato.

Tratto da La mistica cristiana, di Zambon Francesco, © 2020 Mondadori Libri S.p.A., Milano, per gentile concessione dell'editore e dell'autore