Immagine tratta dalla copertina del libro

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PRO ARMENIA. VOCI EBRAICHE SUL GENOCIDIO ARMENO

a cura di Fulvio Cortese e Francesco Berti

24 febbraio 2016
Versione stampabile

Quattro testimonianze sul genocidio armeno che ne ricostruiscono la storia, ne chiariscono le peculiarità e ne descrivono gli orrori denunciando le responsabilità con il coraggio di chi non rimane in silenzio davanti all’umanità calpestata e l’indignazione di chi vede il mondo restare inerme se non indifferente davanti al crimine.

Fulvio Cortese è docente della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Trento, insegna Istituzioni di diritto pubblico e Diritto processuale amministrativo.
Francesco Berti è docente del Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Studi Internazionali dell'Università di Padova, insegna Storia del Pensiero politico contemporaneo e Storia delle dottrine politiche.

Postfazione

In concomitanza con l'ormai prossima celebrazione del centenario del Metz Yehérn (1915/2015), la pubblicazione di quattro testimonianze autorevoli, oltre che inedite per il pubblico italiano, è un fatto da salutare con grande attenzione.
Si tratta di quattro voci diverse, di quattro distinti punti di vista sul "grande" genocidio armeno: sui suoi presupposti e motivazioni; sulla continuità storica con altri episodi simili; sulle sue terribili modalità operative; sul delicato rapporto che a proposito è intercorso tra le istituzioni ottomane e le diplomazie europee; sulla questione della responsabilità politica cui imputare sia la commissione di queste atrocità, sia il tentativo di nasconderle al dibattito internazionale come al cuore e alla memoria di ogni uomo.
In quanto tali, questi contributi rimettono in gioco l'ormai nota ridda di interpretazioni e di letture che finora sono state proposte su ciascuno dei temi così ricordati. Forniscono nuovi spunti, ingenerano correlati dubbi, consolidano altrettante certezze; soprattutto, ci danno l'opportunità di misurare con grande immediatezza una prima registrazione dell'evento, poiché alcuni degli Autori qui considerati scrivono quando il terreno è ancora caldo ovvero raccontano di episodi di cui hanno saputo da testimoni diretti o cui essi stessi hanno assistito. Aaron Asronsohn produce un vero e proprio rapporto, databile alla fine del 1916; Einstein narra di ciò che ha appreso sul campo, di prima mano, pubblicando un testo che risale al 1917; e il pezzo di Manderlstam è del 1918.
In queste pagine, le drammatiche ferite lasciate dagli accadimenti sono ancora aperte, e possiamo così apprezzare la denuncia appassionata di chi cerca, da subito, di diffonderne notizia e di avviare un processo collettivo di meditazione e di intervento, specialmente da parte della società civile occidentale e dei governi che la guidano.
L'aspetto che più colpisce, tuttavia, è un altro. Tutti gli Autori sono ebrei. E la circostanza non può che far riflettere, visto che il loro corale lamento pro Armenia può essere traguardato anche come triste presagio di chi, essendo sempre stato perseguitato, intravede in quel caso un angosciante salto di qualità, un precedente violentissimo capace, da quel momento in poi, di abbattersi con ferocia anche su altri popoli e, in primis, su quello ebraico. In questo senso, il piccolo estratto di Lemkin è molto importante, provenendo dal giurista che sin dal 1933, e proprio a partire dalle vicende armene, aveva cercato più di ogni altro di promuovere sul piano internazionale l'adozione di una convenzione capace di obbligare gli Stati a punire ciò che, solo nel 1948, verrà definito come genocidio. Sarà l'indicibile esperienza dell'Olocausto a muovere le coscienze e a rendere indiferibile la necessità di materializzare un impegno formale da parte delle neonate Nazioni Unite. Eppure, continuare a pensare ciò che è accaduto in Armenia non è affatto inutile, né può dirsi assorbito dalle fondamentali e innumerevoli ricerche che la Shoah ha stimolato finora.

Per gentile concessione de La Giuntina.