Foto Adobe Stock

In libreria

Lettere dalla fine del mondo

di Massimiliano Parente e Giorgio Vallortigara

15 febbraio 2021
Versione stampabile
Se le nostre convinzioni sul senso dell’esistenza sono state ormai del tutto archiviate dalle scoperte scientifiche, non possiamo liberarcene una volta per tutte e dare vita a un nuovo Illuminismo? O meglio, cosa possiamo dire ancora – attraverso il punto di vista della letteratura e della scienza, che in queste pagine viene come sublimato – sulla nostra natura, sull’identità e la memoria, sulle grandi domande esistenziali, e persino sul sesso, sull’arte, sulla possibilità di scrivere? L’irriverente, disincantato e inconfondibile stile di Massimiliano Parente – che non ha paura di essere preso sul serio né di non esserlo – si unisce ora allo sguardo limpido e pacato del neuroscienziato Giorgio Vallortigara, e il risultato è un epistolario squisito, un dialogo pieno di ironia e di sottigliezze, capace di sollevare domande significative e al tempo stesso di lanciare, con divertita premeditazione, inedite provocazioni al lettore.
Dalla critica al nichilismo all’impostura della datazione “dopo Cristo”, dal senso di credere in un dio alla consapevolezza scientifica del nulla cui tutto l’universo è destinato, dal sovrannaturale all’arte della verosimiglianza, dal sofisticato dualismo mente-cervello al libero arbitrio: queste lettere sembrano arrivare al termine delle cose, alla fine del mondo, per poi tornare indietro e dire a noi qualcosa del nostro tempo e del nostro futuro.
 
Massimiliano Parente è uno scrittore italiano
Giorgo Vallortigara è professore ordinario presso il Centro Interdipartimentale Mente/Cervello - CIMEC dell'Università di Trento
 
Da pagg. 214-226

Roma, 2 settembre 161 DD

Caro Giorgio,

[… ] mi è venuta in mente un’altra cosa riguardo alle credenze. Come sai rifiuto il termine ateo (come puoi essere senza qualcosa che non c’è), come anche nichilista, laicista, agnostico, e tutte quelle parole che hanno inventato prima i religiosi e poi gli umanisti per definire la razionalità per negazione rispetto all’irrazionalità. Devo dire che anche non credente mi suona male, perché sembra un handicap, come non vedente o non udente, mentre casomai è il contrario. In ogni caso, pensavo: credere, come hai spiegato tu stesso in quel bellissimo libro che è Nati per credere, è una predisposizione biologica dell’essere umano, che troviamo in tutte le culture (la cosa divertente è che in ogni cultura, e sono migliaia, credono che la loro religione sia quella vera). E tuttavia allora io, te, Richard Dawkins e milioni di altre persone cosa sono? Contronatura? Perché a molti di noi viene spontaneo non credere? Solo perché abbiamo studiato? Non credo, visto che sono molti gli studiosi che hanno l’handicap di essere credenti, cioè non razionali. Senza considerare che ci sono molte persone ignoranti che non credono, secondo me perché hanno un senso della realtà superiore alle persone cosiddette acculturate. Sono curioso della tua risposta, anche perché la mia non è particolarmente corretta: secondo me è determinata dal fatto che le persone stupide sono numericamente superiori a quelle intelligenti. Tutto il progresso dell’umanità è determinato da una percentuale esigua di membri della nostra specie, molto inferiore all’uno per cento. Non per altro ancora oggi poche persone comuni hanno compreso l’evoluzionismo e non hanno la più pallida idea della relatività, della fisica quantistica, dell’universo dentro cui viviamo.

Vorrei infine anche farti riflettere su una cosa: ci sono molti atei che si dicono tali ma non lo sono, proprio perché sono atei. Sono quelli che ti rispondono sono ateo ma credo in qualcosa, che come tu ci insegni è sempre qualcuno. È il modo di dirsi senza qualcosa riconoscendo implicitamente che questo qualcosa (qualcuno) esista. Ecco, dalla mia domanda sul perché noi non siamo così, eliminerei anche gli atei che si dicono atei, sono dei credenti travestiti.

Baci, tuo,
Massimiliano

 

Rovereto, 4 settembre 2020 AD

Caro Massimiliano,

[…] sono d’accordo con te, la parola stessa, ateo, non dovrebbe avere ragione di esistere, così come non esiste una parola specifica per indicare chi non crede alla Befana. L’onere della prova è a carico di chi sostiene l’esistenza della Befana! Le cose vanno altrimenti perché, come abbiamo notato ripetutamente, l’idea di Dio è probabilmente una conseguenza, una specie di astrazione, della nostra predisposizione biologica a rintracciare le cause degli eventi come prodotti delle azioni di agenti animati. E questo ci conduce alla tua domanda: se è naturale, nel senso che siamo biologicamente predisposti a questa credenza, come si spiega che non sia universale? Io e te (e per fortuna parecchi altri) saremmo contro-natura? […]

Il mio compianto amico, lo psicologo cognitivo Vittorio Girotto, co-autore con Telmo Pievani e me di "Nati per credere", prematuramente scomparso nel 2016, aveva dedicato un bel saggio all’argomento. Il punto è che l’ambiente culturale svolge un ruolo cruciale nell’accettazione e nella diffusione delle credenze nel sovrannaturale (questa affermazione ti sorprenderà visto che mi dici sempre che sottovaluto gli aspetti socio-culturali a favore di quelli biologici). Vittorio nel suo saggio presentava una serie di dati a favore del fatto che l’assunzione di un atteggiamento mentale di tipo analitico possa favorire il venire meno delle credenze nel sovrannaturale. Ma, se fosse così, come si spiega che pensatori certamente analitici come Berkeley, Hume o Kant professassero una fede religiosa? Il fatto è che se l’ambiente in cui vivi non è in grado di fornire spiegazioni scientifiche alternative alle tendenze intuitive foggiate dalla nostra biologia il pensiero analitico da solo non potrà indebolire le credenze nel sovrannaturale. La psicologa sperimentale Deborah Kelemen in uno studio ha chiesto a un gruppo di fisici di prestigiose università statunitensi di giudicare una serie di affermazioni che potevano essere false spiegazioni teleologiche di fenomeni naturali («Il sole emette luce per permettere la fotosintesi delle piante») oppure spiegazioni teleologiche incongruenti relative a manufatti («Le persiane hanno le stecche per bloccare la polvere»). Quando i fisici intervistati avevano un tempo limitato per rispondere, e quindi una minor probabilità di inibire eventuali risposte automatiche associate alle loro intuizioni naturali, rifiutavano le risposte incongruenti relative ai manufatti ma non le false spiegazioni teleologiche dei fenomeni naturali. Insomma, anche persone in possesso di conoscenze scientifiche sofisticate, che nella loro attività professionale rifiutano le spiegazioni teleologiche della natura, si mostrano disponibili ad accettarle in certe circostanze. […]

L’argomento è pregnante nei riguardi di un altro genere di obiezione che spesso ci sentiamo rivolgere: la presenza, vera o presunta, di molti credenti tra gli uomini di scienza. Io credo che questo aspetto sia grandemente esagerato.

L’élite scientifica contemporanea è infatti in grandissima maggioranza composta di non credenti. E, anche tra i credenti, comunque è interessante andare a esaminare come questi si distribuiscano su base disciplinare. Qui rivelerò qualcosa che probabilmente non farà piacere ai miei molti amici matematici e fisici, ma pare che gli scettici siano assolutamente predominanti nelle scienze biologiche, mentre i credenti (non moltissimi per la verità - anche in questo caso i dati sono riferiti alle élite scientifiche, per esempio i membri della Royal Society britannica o della National Academy of Sciences americana) si trovino soprattutto tra i matematici e i fisici teorici. Forse la spiegazione è che questi colleghi sono davvero (o si sentono) più vicini a Dio. Una molto più prosaica è che avendo altro da fare non hanno approfondito a sufficienza l’idea pericolosa di Darwin (come l’ha chiamata il filosofo Daniel Dennett) e cioè come la selezione naturale fornisca un quadro di spiegazione meccanicistico convincente per la produzione di quel che soggettivamente ci appare come «disegnato per», cioè come il prodotto di un artefice, che siano le ali di un uccello, l’occhio umano o l’universo. […]

Adesso però basta con la scienza: parliamo di Proust? O almeno di Musil? Rileggendo Musil in questi giorni ho trovato una bella risposta a una domanda che mi hai posto a più riprese nel corso della nostra corrispondenza, e cioè «Che cos’è l’anima? Definiscimi l’anima». Ecco cosa dice Musil: «È facile definirla negativamente: è quella cosa che scappa a rintanarsi quando sente parlare di serie algebriche.»

Un abbraccio,
Giorgio

Per gentile concessione delle Casa editrice La nave di Teseo