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Corpo, apprendimento e identità. Sé e intersoggettività nella danza

di Chiara Bassetti

15 aprile 2021
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Il libro si concentra sul ruolo del corpo nei processi di socializzazione e apprendimento, da un lato, e di costruzione identitaria, dall’altro. Lo fa a partire dal caso della danza di teatro occidentale, analizzando il modo in cui il saper(far)e per lo più tacito e corporeo – performativo – che la caratterizza viene trasmesso, appreso e va a modificare il senso di sé di chi lo acquisisce. La domanda riguarda dunque i processi che conducono a diventare, essere e dirsi una certa figura sociale, ad esempio una danzatrice, e il ruolo assunto dal corpo non solo come oggetto, ma come soggetto esperiente e agente.
Come si produce un “corpo danzante”? Quali pratiche, individuali e collettive, vengono quotidianamente messe in atto a questo fine? Come si (ri)formano le disposizioni all’azione e la capacità di giudizio? Come muta la relazione col proprio corpo? Come cambia il modo di guardarsi e di narrarsi? Che ruolo hanno, in questo, i corpi “altri”? Quali sono, dunque, i fondamenti sociali di tale processo? L’autrice affronta queste tematiche sulla base di una lunga ricerca etnografica che ha fatto del suo stesso corpo uno tra gli strumenti euristici – scelta, questa, estesamente discussa nelle riflessioni metodologiche che aprono e chiudono il volume. Ne emerge una teoria sociale che guarda al corpo come qualcosa che si è, che si ha, che si fa e che fa fare; all’identità come relazione mutevole tra sé corporeo e sé incorporato; a significazione e interpretazione, infine, come agire immanente all’esperienza vissuta e ancorato a quel “sentire” che è il senso comune. Al centro del lavoro, quindi, l’intreccio tra corporeità, soggettività e intersoggettività.
 
Chiara Bassetti è ricercatrice senior presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell'Università di Trento
 
Dalle Conclusioni. Sé corporeo, sé incorporato, intersoggetività (pagg. 182-186)
 

Se il senso comune proprio di una società fonda sul corpo e nel corpo, leggendovele e contemporaneamente (re)inscrivendovele, le proprie categorizzazioni – cioè il proprio modo di organizzare e ordinare il mondo e la sua esperienza ordinaria – allora vale la pena di considerare la natura corporea e incorporata delle pratiche di conferimento di senso e di comprensione, di significazione e interpretazione.

Sappiamo, innanzitutto, che il corpo viene valutato, esteticamente e non, per le sue apparenze esteriori, classificate e così dotate di (un) senso sulla base della comparazione reciproca, la quale porta alla luce similitudini e differenze, che divengono poi presenze e assenze, inclusioni ed esclusioni, appartenenze e distanze. Si tratti del sesso su cui si costruisce il genere, del colore della pelle su cui si costruisce la razza, dell’aspetto fisico sul quale, nella società neoliberale, si costruisce l’attenzione – divenuta dovere morale – verso il proprio sé, oppure del set di caratteristiche che definisce il “corpo ideale” della ballerina (che varia al variare dello stile di danza e coreografico), è sempre vero che ciascun corpo, all’interno di un determinato campo fenomenico e sociale, si presenta agli altri con delle proprietà percepibili cui vengono immanentemente associati significati. […] I criteri su cui si basa tanto la significazione quanto la comprensione sono difficilmente verbalizzabili, ma non per questo irrilevanti, né tanto meno astratti. Ad esempio, sono stata in grado di sfruttarli, certo dopo averli appresi, quando ho voluto passare-per ballerina (cfr. Overture). […] Le proprietà rilevanti sono sia quelle del “corpo statico”, inclusa la sua decorazione, che quelle del “corpo dinamico” (cosa fa e come si muove, quali azioni compie e in che modo). […]

A farmi passare per ballerina nell’occasione richiamata sopra non sono stati solo lo chignon e la lunga tunica, né solo il physique du rôle, ma anche un certo portamento, un certo modo di camminare, un certo modo di guardare avanti a me e di attraversare la platea – un certo “discorso incorporato” (Farnell 2012; cfr. anche Cowan 1990). Questo dimostra sia come il somatico possa essere semiotico (ivi), sia come il contesto e le aspettative che contribuisce ad attualizzare svolgano un ruolo importante in tale processo: i significati non sono solo ancorati al corpo, ma anche al campo fenomenico in cui, in ogni dato istante, questo corpo si trova. Ecco perché ha senso parlare di relazioni multiple e contingenti tra sé corporeo e sé incorporato. È esperienza comune cogliere un significato senza sapere con precisione cosa lo abbia veicolato. Talvolta ci riferiamo a questo fenomeno parlando di “sesto senso”. Ciò accade poiché per “leggere” tali significati non usiamo una conoscenza proposizionale e discorsiva, della cui disponibilità alla nostra coscienza siamo generalmente consapevoli e che potremmo dunque facilmente riferire a terzi, ma la conoscenza abituale del mondo che il nostro corpo fenomenico ci fornisce a partire dall’esperienza che ne abbiamo fatto e che continuamente facciamo, la quale è pre-riflessiva e spesso non-concettuale. Conosciamo più di quanto possiamo dire, notava Polany (1966).

Le aspettative di senso comune, che riposano tanto sul contesto quanto sui ruoli incarnati dai partecipanti, presentano sia una dimensione normativa che una dimensione morale (Garfinkel 1963, 1967). In questo senso, non è solo l’aspetto del corpo (es. Brace-Govan 2002), né solo il suo agire in interazione con altri corpi (es. Guillaumin 2006), a venir percepito e (moralmente) valutato, ma anche l’azione del sé incorporato sul sè corporeo (il corpo che si fa), della quale portiamo i segni, mostrandoli inevitabilmente a coloro con cui interagiamo. Non soltanto il corpo che si ha, dunque, ma anche il corpo che si fa (tecniche del corpo riflessive) e che si é (storia incorporata) sono soggetti a giudizio morale oltre che normativo. Come ci insegna Agnes (Garfinkel 1967), accavallare le gambe non è semplicemente qualcosa che le donne dovrebbero fare e gli uomini dovrebbero invece non-fare, è anche qualcosa che è “cosa buona e giusta” fare per (chi reclama l’identità di) una donna e, viceversa, non-fare per (chi reclama l’identità di) un uomo. Il “culturista”, la “palestrata”, il “lampadato”, l’“anoressica”, il “buongustaio”, la “sportiva”, il “topo di biblioteca”, la “ballerina”, ecc. sono tutte categorie identitarie (ruoli) più o meno situate (focalizzati) cui è integrato un valore morale; tutte chiamano in causa il corpo e la moralità che si (di)mostra agendo e/o avendo agito con/su/per esso.

Le tecniche del corpo messe o meno in atto dai danzatori e tematizzate nelle loro narrazioni costituiscono un esempio di come diverse modalità di azione con e per il corpo proprio corrispondano a diverse identità. Quando il nostro agire – passato o presente, occasionale o reiterato – si rende manifesto nel/sul nostro corpo sotto forma di habitus e/o di apparenze corporee e/o di abbigliamento/decorazione, esso viene automaticamente valutato su base morale, in quanto costituisce un agire nei confronti del proprio sé, sacro tanto quanto gli altri self incorporati con cui interagiamo e dall’interazione coi quali la nostra identità viene quotidianamente (ri)definita. I criteri di giudizio mutano col tempo e tra diverse società, ma nell’azione-in-interazione quotidiana il corpo non è mai qualcosa di indifferente per l’identità, e questo nonostante i perduranti sforzi della cultura occidentale al fine di separare la mente, intesa quale luogo del self, dell’identità e della coscienza, dal corpo carnale.

Si potrebbe controbattere che il sé individuale è sacro solo nella secolarizzata società moderna occidentale, ove il corpo proprio è anche un “corpo appropriato” (body proper) (Farquhar e Lock 2007). Tuttavia, l’azione sul proprio corpo presenta comunque un carattere morale, poiché c’è sempre qualcosa di sacro cui essa inerisce. Che il mio corpo appartenga a me, a dio, alla tribù, all’esercito, alla corporazione, alla compagnia di danza, ecc., ci sono sempre modi legittimi (o leciti) ed illegittimi (illeciti) di agire con, su e per esso. Nella società contemporanea occidentale considerata in questo testo, laddove la sacralità del sé viene violata – ad esempio, mettendo a rischio la propria vita in guerra, o provocandosi dolore cronico, infortuni e/o “deformazioni” a causa dell’esercizio intenso (le gambe storte del calciatore, l’iperestensione della ballerina, l’estremo sviluppo muscolare del bodybuilder, ecc.) – ci deve sempre essere, pena la condanna morale, un valore più alto, un sacro alternativo socialmente legittimato cui la sacralità del Sé viene sottomessa, si tratti della Patria, dell’Arte, o della Professione. Lo stigma che accompagna la culturista, l’anoressico, o l’autolesionista deriva esattamente dall’assenza di un valore più alto per il quale sia socialmente legittimo violare la sacralità del proprio sé corporeo, e il comportamento viene spesso “spiegato” come sintomo di malattie mentali di vario genere; diverso è il destino della ballerina, che si vota all’arte.

Poiché i valori morali non variano solo a seconda della società ma anche del gruppo e poiché l’individuo appartiene contemporaneamente a svariati gruppi sociali più o meno stabili, i tratti corporei del sé possono presentarsi come particolarmente problematici nell’interazione quotidiana, perché decisamente difficili da nascondere nel caso la loro presenza minacci, a livello situato, la faccia dell’individuo. Questi si trova spesso a dover gestire diversi (giudizi di) valori(e), talvolta concorrenti, quando non del tutto contraddittori, derivati da ciascuna appartenenza. In questo senso, i canoni estetici di un gruppo sociale più o meno ampio – ciò che, di un corpo, è percepibile da altri e, o meglio, in quanto tematizzato all’interno di una determinata cultura – non sono mai completamente a-morali.

 
Per gentile concessione della Casa editrice Ombre Corte.