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Il cacciatore di corte. Una vita ribelle nell'Europa del Seicento

di Serena Luzzi

21 luglio 2021
Versione stampabile

Perché mai occuparsi di un conte bigamo, morto prigioniero in una fortezza di Luigi XIV? Di una moglie che si vendica come può del coniuge che l’ha abbandonata? Di un arcivescovo padre di quindici (forse sedici) figli? Di un uomo rinchiuso in una cella da vent’anni e più, perseguitato per causa di fede? Di una donna prigioniera alla Bastiglia? Tutti sono accomunati da almeno un agente: la volontà, se non la capacità, di sfuggire ai condizionamenti sociali, agli obblighi che il ruolo impone, alle norme, giuste o ingiuste che siano. Tutti marcano uno scarto. Se può esser vero che Chiesa e Stato, in particolare dopo il Concilio di Trento, hanno perseguito il modello del ‘disciplinamento’, ovvero il controllo dei comportamenti umani in virtù di valori politici e spirituali, bisogna però riconoscere che un tale obiettivo si è scontrato con forti resistenze, talvolta con veri e propri fallimenti. E questo libro, a partire dal racconto di storie particolari, è dedicato proprio a questi fallimenti, allo studio di quegli irregolari che al disciplinamento non si piegano, non tanto e non solo per scelta ideologica, ma anche per questioni private – affetti coniugali e rapporti famigliari, matrimonio e trasgressione –, per fede, aprendo di fatto uno spiraglio su un tema più generale e rilevante: i limiti del controllo sociale e le mille strategie adottate dagli individui per sottrarvisi.

Serena Luzzi è professoressa presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell'Università di Trento.

Da Prima puntata: La seduzione (pagg. 3-8)

Un matrimonio riparatore

Una relazione sessuale consumata al di fuori del talamo nuziale segnò la vita del conte Ferdinando Carlo Thun di Croviana più di quanto l’uomo potesse immaginare. Anche il corso della vita della contessa Anna Giuditta di Arsio, la compagna, fu deviato da quel rapporto e dalla gravidanza che ne seguì. Ma ancor più, la condizionerà l’avversione irriducibile nei confronti del matrimonio di Ferdinando Carlo, sordo alle pressioni famigliari e alle convenzioni sociali.

Erano entrambi figli della migliore aristocrazia trentino-tirolese, conti vassalli diretti dell’imperatore, signori di feudi e castelli disseminati nelle valli di Non e di Sole, entro i limiti occidentali del principato vescovile di Trento, la più meridionale delle Chiese del Sacro Romano Impero. Qui la sovranità del principe tridentino conviveva con le antiche enclaves controllate dal conte del Tirolo, suo scomodo confinante.

Thun e Arsio erano uniti da legami antichi. Le loro rocche e i loro palazzi quasi si sfioravano, distribuiti in uno spazio dai margini contenuti, dove parentele e clientele erano saldamente intrecciate, nonostante il divario per influenza e prestigio. Come poteva, il conte Thun, pensare di sottrarsi al matrimonio con la contessa, madre di sua figlia?

Fu per lui un’infatuazione momentanea? E quali aspettative nutriva Anna Giuditta? Aspirava al matrimonio che la sua età auspicava? Chi fu il motore della seduzione? Lui o lei? La documentazione non offre risposte ai nostri interrogativi. Di certo c’è la gravidanza. Anna Giuditta partorì il 1° luglio 1677; il concepimento risale, quindi, grosso modo al mese di novembre dell’anno precedente. Doveva essersi trattato di un rapporto consensuale. E chissà se c’era stata una promessa di matrimonio, vincolante per gli usi locali, nonostante la condanna espressa dalle norme ecclesiastiche. Il Concilio di Trento, infatti, aveva spogliato di sostanza quella antica e ancora diffusa tradizione. Secondo i princìpi della Chiesa di Roma, la coppia aveva commesso un grave peccato di carne. Ma in questo come in molti altri casi cadono nel vuoto l’appello alla coscienza, la condanna della sessualità vissuta al di fuori del perimetro marcato dal vincolo nuziale, il valore attribuito dalla Chiesa alla castità prematrimoniale. Interessi, pulsioni, sentimenti sembrano sfuggire alla risolutezza con cui le autorità ecclesiastiche come gli Stati perseguono il controllo sulla sessualità e sul matrimonio.

Il conte Thun negherà fin sul letto di morte di essersi impegnato in alcun modo. Non aveva pronunciato la promessa – equivalente a un consenso alle nozze –, né «mai pensato» di farlo e pertanto – era il suo punto di vista – «non era tenuto» all’unione riparatrice. Se davvero era mancata la promessa, con quali attese Anna Giuditta, verosimilmente vergine, aveva varcato la soglia di un’illecita intimità? Perché aveva messo a rischio il suo onore di donna, la sua reputazione e quindi il suo futuro? L’avevano indotta i sentimenti o una strategia? Carezzava un progetto matrimoniale con il conte Thun? Per la giovane il rapporto sessuale doveva essere stato un preludio alle nozze: così doveva averlo immaginato.

Verificare la pronuncia dell’impegno era affare oltremodo complicato e superfluo ormai: erano dettagli che la gravidanza aveva spazzato via. Le nozze si imposero come l’unica soluzione possibile per riparare il disonore in cui Anna Giuditta e la sua famiglia erano sprofondati. Di fronte al concepimento passarono in secondo piano le minacce denunciate da Ferdinando Carlo, il consenso negato, la palese violazione della sua volontà – fatti che in altre circostanze avrebbero potuto compromettere la validità del matrimonio, che la Chiesa appoggiava sul libero consenso dei contraenti. Anna Giuditta «pretendeva di essere sposata». Gli Arsio si erano rivolti al tribunale ecclesiastico di Trento, ma anche ai tribunali secolari di Innsbruck, essendo titolari di feudi tirolesi, come lo erano, del resto, anche i Thun. La causa per «stupro» – così il lessico giuridico definiva il rapporto sessuale illegittimo, consensuale o meno che fosse – avrebbe avuto conseguenze temibili sul piano finanziario e, prima ancora, sul piano dell’onore. Davanti ai giudici si sarebbe dovuto riferire degli incontri, scendere nei dettagli: come si erano conosciuti? Chi aveva fatto il primo passo? Quando e dove era stato consumato l’amplesso? Si era trattato di rapporti iterati? Come era stata dichiarata la promessa: a voce o con segni fisici – baci, carezze, toccamenti – o con un dono, un anello? La causa non fu avviata. Si resta, perciò, privati di informazioni interessanti sulle strategie legali che le parti avrebbero potuto adottare. Come si sarebbe difeso il conte Thun di Croviana? Si sarebbe presentato come un giovane ingenuo sedotto da una donna in cerca di marito? E quale profilo avrebbe offerto di sé Anna Giuditta? Avrebbe aderito allo stereotipo potente di donna onesta e fragile, vittima di un seduttore bugiardo?

«Per fuggire la nota d’infamia», avvertiva un amico di casa, gli Arsio erano pronti a tutto, anche a commettere un delitto d’onore. Se, però, si fosse risolto a sposare la contessa, Ferdinando Carlo avrebbe «soddisfatto la coscienza» e «assicurato» la propria vita. Il messaggio era chiaro.

Le nozze furono celebrate il 6 ottobre dell’anno 1678, un giovedì. Lei aveva 26 anni, lui 27. Per scongiurare ogni notorietà all’evento molesto, Ferdinando Carlo aveva imposto la massima discrezione; viceversa, la parte offesa avrebbe desiderato dare la più ampia pubblicità al momento fatidico dell’onore recuperato. Il rito fu celebrato senza le pubblicazioni previste dal Concilio di Trento, grazie a una generosa dispensa vescovile, accordata con motivazioni che, purtroppo, non conosciamo. Anche il luogo scelto per le nozze rispondeva alla volontà di nascondere l’avvenimento: Anna Giuditta non si sarebbe sposata nella chiesa parrocchiale del borgo di Arsio, nell’Alta valle di Non, fulcro storico del potere del casato. La cerimonia fu ospitata nel territorio sotto controllo dei Thun, nell’antico e suggestivo eremo di San Romedio; qui, secondo la tradizione, l’eremita si sarebbe ritirato, nell’XI secolo, capace di domare con la fede gli orsi.

Circondato da un fitto bosco e protetto alla vista da minacciosi dirupi, il luogo era da secoli meta di pellegrinaggio. I Thun considerano il santuario patrimonio di famiglia. Prestigio e devozione si intrecciano: il casato finanzia la costruzione di due chiese e realizza una delle tre cappelle che costituiscono l’aggrovigliato complesso; dona reliquie, altari e tele; sovvenziona la decorazione delle pareti, impreziosite dagli stemmi del casato; commissiona ex voto di gratitudine per le richieste esaudite dal santo eremita. Una delle tavolette votive ritrae un giovane sopravvissuto al colpo di pistola che poteva essergli fatale: è Carlo Cipriano, il padre di Ferdinando Carlo, deceduto poche settimane prima dei fatti che costringevano ora il figlio all’altare. Uomo molto devoto, obbligato a rinunciare alla desiderata carriera ecclesiastica per adeguarsi ai bisogni del casato, il conte avrebbe rimproverato aspramente il figlio per la relazione con una donna degli Arsio, che anni prima lo avevano offeso con atti e parole e osato sfidare i Thun; ma di fronte alla gravidanza avrebbe, infine, biasimato le resistenze di Ferdinando Carlo, obbligandolo al passo che l’etica corrente e le convenzioni sociali imponevano.

Per gentile concessione della Casa editrice Laterza.