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Le corone della Torà. Logica e midrash nell'ermeneutica ebraica

di Massimo Giuliani

29 settembre 2021
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L’interpretazione dei testi è il cuore del giudaismo e lo studio in ebraico della Torà scritta e orale è uno dei suoi precetti fondamentali. Ma interpretare è un’arte sviluppatasi sulla base di regole precise che fissano dei limiti logici e insieme potenziano la fantasia dei maestri di Israele.
In questi dodici capitoli si esplorano tali middot o norme ermeneutiche, la dialettica tra senso letterale e approccio midrashico, gli sviluppi dell’esegesi rabbinica soprattutto in età medievale, i dibattiti sul valore delle aggadot nella prima modernità e, infine, i diverbi tra ortodossia e riforma sul posto da assegnare al metodo storico-critico nella lettura dei testi sacri: Torà, Talmud, Zohar...
Ma idee e prassi dell’interpretazione si applicano anche al mondo dei sogni, all’elaborazione della memoria e alla vasta produzione poetica e letteraria, rifiorita in ebraico nel corso del Novecento, in particolare nella società israeliana.
Questo percorso mostra come, da sempre e mai come oggi, il giudaismo sia una interpreting tradition nel solco di una lunga storia che combina rigore e innovazione. Secondo il Midrash, Dio stesso, tracciando corone sulle lettere della Torà, ha cominciato questa storia.

Massimo Giuliani è professore presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell'Università di Trento.

Dal Capitolo 1: L'invenzione della tradizione

Se dovessi scegliere un verbo che tralasci il meno possibile di quanto caratterizza la cultura ebraica, o che in positivo cerchi di cogliere l’essenziale – quel che a me pare essenziale – della storia intellettuale e religiosa del giudaismo, sceglierei il verbo ‘interpretare’. Quante volte è stato detto, giustamente, che il popolo ebraico non è il popolo del Libro ma piuttosto il popolo dell’interpretazione del Libro? E poi, quale Libro (e perché con la maisucola)? La Torà, che il mondo occidentale chiama, con termine greco, Bibbia? Oppure il Talmud, per secoli ritenuto ricettacolo di eresie e blasfemia, e come tale censurato e bruciato al pari di chi lo studiava e insegnava? O non invece lo Shulkhan ‘arukh, l’ultimo grande codice di halakhà che regola ogni aspetto della vita ebraica, personale e comunitaria? Infine, non è intuitivo quanto il termine ‘libro’ sia inadeguato in tutti e tre i casi?

Torà, Talmud e Shulkhan ‘arukh sono testi scritti, che possono leggersi come libri, è vero, ma sono anche strutture testuali complesse, avvolte in generi letterari diversissimi tra loro, unificati soltanto da alcuni temi comuni – nessi di sensi sottesi e spesso invisibili – e dai caratteri ebraici, quelle ventidue lettere articolate in ebraico biblico e mishnico, in aramaico talmudico e medievale, e in quel corsivo detto rashì con cui si stilarono generazione dopo generazione chiose e commenti, note e glosse al fine di tradurre, significare, chiarire, spiegare, definire, collegare, integrare, esplicitare, decifrare e – se necessario – ricifrare i ‘segni’ (otijot) del testo: le lettere e le parole, le frasi e le unità tematiche (seguiot).

Un simile processo, storicamente ben tracciabile, è quel che i filosofi chiamano appunto interpretazione, meglio: ermeneutica. Nelle lingue occidentali tale termine greco è consolidato, risulta chiaro e funzionale. Ma esiste un corrispondente ebraico, più o meno tecnico, altrettanto esplicito e utile per comprendere il processo stesso della comprensione, linguistica e testuale? Per quanto paradossale possa sembrare, una cultura imperniata sull’arte dell’interpretazione, che quest’arte ha portato a livelli inimmaginabili di complessità e di creatività intellettuale, manca in effetti di un termine equivalente a ciò che intendiamo per ‘ermeneutica’. Quasi che quest’arte, nel mondo ebraico, fosse troppo complessa o troppo ardita per stare in un concetto, in un termine.

Per i greci, l’arte dell’ermeneutica risale a un dio, Hermes, che fungeva da messaggero tra cielo e terra, tra dèi e umani, non meno che tra gli dèi medesimi: non v’è rivelazione delle parole divine senza ermeneutica, ma neppure v’è inno liturgico o supplica agli dèi che non sia mediato da un autorevole interprete e traduttore. Se la maieutica, ovvero il ricordo, è parto umano, l’ermeneutica – ovvero la decifrazione dei segni, la comprensione autentica e la visione – è opera di un dio. In ebraico, un siffatto ermeneuta porterà il nome di nevì, di profeta. Ma la profezia non è ciò che noi intendiamo per arte dell’interpretazione. All’occorrenza il profeta si fa interprete e messaggero del divino, ma l’ars interpretandi non sarà, ebraicamente, una caratteristica del nevì, del profeta, quanto piuttosto del chakham, il sapiente, o meglio del talmid chakham, dello studioso, e del morè, del maestro.

Il giudaismo non è stato creato dai profeti ma dai maestri di Israele, per questo parliamo, non senza incorrere in una certa tautologia, di giudaismo rabbinico. Il giudaismo è e non può che essere solamente rabbinico, perché è il risultato di un lungo e sofisticato processo ermeneutico i cui responsabili, creatori e custodi di regole e applicazioni del processo stesso, sono i rabbini, i maestri. E con ciò, non esiste in ebraico il corrispettivo del verbo ‘interpretare’ o del concetto di ‘ermeneutica’. Altri verbi e termini suppliscono: lidrosh, che contiene l’idea di scavare, cercare e portare in superficie, da cui viene il sostantivo midrash; perush, che significa commento e spiegazione; beur, che veicola luce e dunque vale come illuminazione e chiarimento. Espressioni idiomatiche sono poi state create per rendere icasticamente e giustificare teologicamente quest’attività che caratterizza il pensiero dei maestri di Israele, i rabbini: fare le orecchie alla Torà (Shir hashirim rabbà I,8), stare sul suo segreto (ivi), costruirle una siepe attorno (Pirqè Avot I,1), trasformarla in anelli ossia farne una catena (Avot di R. Nathan A 18)... e ancora, per restare nella scuola di Rabbi ‘Aqivà, “legare corone alle lettere [della stessa Torà]” secondo una famosa aggadà o parabola che leggiamo nel Talmud Babilonese, trattato Menachot 29b. A chi non sfugge la circolarità ermeneutica di questo procedere, non sfuggirà neppure l’utilità pedagogica di quest’apparente petitio principii.

Partiamo dunque da Menachot 29b, una aggadà assai nota e tra le più citate per descrivere lo spirito e la prassi dell’ermeneutica rabbinica, ma che presenta aspetti di complessità spesso trascurati senza la comprensione dei quali questo ‘mito fondatore’ della creatività e della libertà rabbinica in materia esegetica perde il suo significato più profondo, quello halakhico.

Rabbi Yehudà tramandò a nome di Rav: quando Mosè ascese alle altezze celesti, trovò HaQadosh Barukh Hu che stava seduto e legava corone alle lettere [della Torà scritta, ossia vi metteva in cima come degli ornamenti]. [Mosè] gli disse: “Signore del mondo, chi trattiene la tua mano [dal dare la tua Torà così come essa già è scritta]?”. Gli rispose: “Alla fine di molte generazioni verrà un uomo – il suo nome è ‘Aqivà ben Joseph – che esplorerà e spiegherà punto per punto tutto questi comuli di aggiunte [in termini] di halakhot”. [Mosè] gli replicò: “Signore del mondo, fammelo conoscere [lett. vedere]!”. Gli rispose: “Volgiti dietro di te [ti è permesso di attraversare la storia]. [Mosè] andò e si sedette in fondo all’ottava fila [di banchi del bet ha-midrash di Rabbi ‘Aqivà]. [E lì ascoltava] ma non capiva di cosa stessero parlando. E il vigore mentale gli venne meno. Fin quando [Rabbi ‘Aqivà] giunse a una certa questione e i suoi discepoli gli chiesero: “Maestro, da dove ricavi questo tuo insegnamento?”. [E Rabbi ‘Aqivà] rispose loro: “È halakhà data a Mosè sul monte Sinai”. E nuovo vigore tornò [ad animare Mosè]. Questi si ripresentò a HaQadosh Barukh Hu e gli disse: “Signore del mondo, hai qualcuno [formidabile] come quest’uomo e vuoi dare la Torà per mezzo mio?”. Gli rispose: “Non parlare. Questa è la mia decisione”. [Allora Mosè] riprese a dire: “Signore del mondo, mi hai mostrato il suo insegnamento [sulla Torà, ora] mostrami la sua ricompensa!”. Gli rispose: “Volgiti dietro di te [ti è concesso di scendere ancora nel tempo]”. [Mosè] tornò in terra e vide che pesavano la sua carne al mercato [per venderla]. [Allora Mosè] protestò: “Signore del mondo, questa è la Torà e questa la sua ricompensa?”. Gli replicò: “Non parlare. Questa è la mia decisione”.

Per gentile concessione della Casa editrice Giuntina.