Dalla locandina del ciclo di incontri: "Chi ha paura del Novecento? Antidoti musicali all’Horror Vacui"

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IL SILENZIO E LA MUSICA

Tra pensiero occidentale e cultura giapponese. Un incontro del ciclo Chi ha paura del Novecento?

10 dicembre 2018
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Margerita Anselmi
di Margherita Anselmi
Docente di Pianoforte presso il Conservatorio F.A. Bonporti di Trento, ha collaborato con il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell'Università di Trento.

Per la cultura greca, silenzio aveva due possibili significati: apice del suono e della parola, condensazione ultima di tutti i possibili significati, oppure potenza che non giunge all'atto, sottobosco sonoro caotico e indefinito, chora vuota e priva di direzione.

Per la cultura ebraica, d’altra parte, il silenzio era un linguaggio che "vibra sotto le fessure del mondo espressivo", che mira, paradossalmente, alla "comunicazione di ciò che non è comunicabile", oppure silenzio era Dumah, angelo della morte e tomba del dire e quindi dell'essere.

Difficile affrontare la questione del silenzio da un punto di vista occidentale, e in particolare dalla visuale dell’interpretazione musicale. A prima vista un abisso divide l'interprete musicale dall'idea di silenzio: è attraverso l'interprete che la partitura del compositore si fa compiutamente musica. Suonare, per Schumann, è un verbo con connotazioni riflessive: io suono significa risuono tutto, con il mio intero essere. A ben guardare però l'interprete conosce anche meglio del compositore la necessità del silenzio: silenzioso è il contesto che l'interprete crea in sala; silenziosissimo è spesso l'interprete a casa, spesso taciturno per natura; silenzio ed evocazione del vuoto fanno parte della sua routine quotidiana, della fatica della decifrazione e dello studio. È per questo che l'interprete, più del compositore, assomiglia al filosofo, col quale condivide da una parte le logiche della creazione, il sentore di verità trascendenti, e dall'altra parte la fatica della concettualizzazione e della comunicazione, aggravata dall'idea di performance pubblica da parte dell'esecutore: il quale è teso tra prestazioni funamboliche e una dimensione rivelativa.

Glenn Gould non ama i concerti: pur avendo esordito si ritira dalle scene all'età di 32 anni, e definitivamente: dal 1964 alla morte (1982) comunicherà con un pubblico vastissimo, ma solo tramite incisioni discografiche e trasmissioni televisive. Suo esplicito intento è circondarsi di quel silenzio che è autenticità d'arte, e che consente un approccio metafisico alla musica stessa. I suoni sono ricondotti alla loro essenza tattile e visiva ma in senso platonico: suoni visibili all'intelletto, non all'organo fisico della vista. Come un asceta rifiuta di venire incontro al pubblico ingordo di sensazione, e, piuttosto, si rivolge a un altro pubblico intelligente (o lo crea) che nel chiuso di una stanza, accanto a un giradischi, nel silenzio dell'ascolto e della compartecipazione, interagisce con quella creatività vivente e a getto continuo che è l'interprete Gould. Come si potrebbe immaginare un trasferimento in sala da concerto, con tutti gli imponderabili del caso, di una dimensione musicale e meditativa di questo tipo?

Di tutt'altro avviso è il pianista Claudio Arrau che invece accetta con tutto sé stesso, in maniera singolarmente consapevole e cosciente, la sfida dell'esibizione pubblica. È faticoso uscire dalla timidezza per un ragazzino come lui: guarire da quell'afasia che lo ha preso soprattutto una volta entrato in crisi, a circa vent'anni. Da fanciullo prodigio, morto il grande maestro precipita a vent'anni in una crisi esistenziale che lo porta vicino alla follia e a seri pensieri di suicidio.

Si riprenderà quando avrà la fortuna di incontrare la psicologia junghiana. Così un fiotto di calore scioglie la lastra che aveva fatto di Arrau un pattinatore freddo e preoccupato solo di non sbagliare. L'ansia ora, con un ascolto di quella eloquenza di cui scopre capace la propria stessa psiche, è incanalata come risorsa dell'esecuzione, profonda vena di compartecipazione. E poi il corpo: dapprima, silenzioso e irrigidito, ecco che ora parla, e si rivela sapiente, direttamente collegato alla dimensione musicale, con le sue leggi e col portato del destino dell'uomo occidentale. Dov'è qui il silenzio? Il silenzio, il vuoto, per Arrau sono esperienze imprescindibili: è nell'autenticità di quel vuoto di convenzioni, nel silenzio di atteggiamenti scontati che il giovane Arrau può passare attraverso l'esperienza estatica dell'uscita da sé per far posto all'Altro. Il suo corpo stesso ora è in grado di sentirsi "percorso da più voci", e di dar vita a personaggi o eventi o epopee della psiche che fanno di certe sue interpretazioni (la Sonata o la Seconda Ballata di Liszt per esempio) gemme uniche nella storia della musica.

Senza il lascito ebraico è impossibile pensare a una storia della interpretazione musicale e alla musica stessa, in quanto creazione estetica. Nonostante la cultura ebraica dia una forte valenza positiva all'interpretazione sempre viva (la Torah stessa è "l'assolutamente interpretabile"), il Silenzio intride di sé la creazione intera. Per la cultura ebraica tutto è parola e suono, ma con un’originaria componente di Silenzio che è silenzio di Dio stesso.

L'aggancio con l'Oriente passa attraverso la "vibrazione di fondo" dell'Om (AUM) il mantra della cultura classica indiana, triangolo vocale e mistico che comprende tutti i possibili suoni e gli atteggiamenti vocali e fa dell'uomo un essere risonante in profonda sintonia con l'universo. Ma è in particolare nella vastissima cultura sino-giapponese che l'idea di vuoto è assolutamente cruciale, corroborata a livello linguistico da una sintomatica assenza del verbo essere: in pittura come in musica, nella scrittura come in poesia la dimensione della vacuità è uno sfondo imprescindibile, su cui si stagliano successivi piani di orizzonte. Ciò provoca, o presuppone, un atteggiamento da parte di chi guarda o ascolta che poggia su pilastri estetici tipicamente orientali: il reale non si separa dall'opera d'arte, ma questa piuttosto sorge dalla fitta trama del cosmo stesso e accade; così la sua fine è un dolce risolvere in quella trama silente da cui era uscita.

Compartecipare di questo sorgere e tramontare è compito del creatore d'arte, la cui ispirazione è cosmica molto più che personale, e consiste più nell'atto di "farsi aperto ad accogliere" che nel "porre" della cultura occidentale. Il concetto di Nulla è qui assolutamente portante: ne intuisce la valenza Heidegger, sia nel detto "das Nicht nichtet" - traducibile grossomodo come " il Niente nientifica"- sia in quell'assenza di fondamento che permea di sé il suo secondo periodo. Il termine Abgrund è per Heidegger abisso e apertura: è quanto di più vicino alla cultura giapponese il pensiero occidentale abbia mai concepito. La pittura sino-giapponese si avvale dell'Aperto, del Vuoto, detto anche Cielo. Cogliere la sua essenza è un fatto anche etico che fonda il senso di una particolarissima felicità estetica.

Dal 2 al 25 ottobre 2018 si è tenuto un ciclo d’incontri a tema musicale, dal titolo: “Chi ha paura del Novecento? Antidoti musicali all’Horror Vacui”, organizzato presso il Palazzo Paolo Prodi dal Laboratorio di Filologia musicale del Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento, dall’Associazione Culturale Continuum e da Windkraft- Kapelle für Neue Musik. Responsabile scientifico Marco Uvietta. Comitato Scientifico: Margherita Anselmi, Luigi Azzolini, Roberto Gander, Marco Gozzi, Stefano Oss, Marco Russo.
Il ciclo è stato organizzato in collaborazione con il Conservatorio di Musica F.A. Bonporti di Trento, l’associazione I Minipolifonici di Trento, Trentino Jazz e Iprase, con il contributo del Collegio Bernardo Clesio e della Fondazione Caritro.
Uno degli incontri del ciclo è stato “Il vuoto, il ritmo. Forme della relazione tra pensiero europeo e pensiero giapponese”, relatori Margherita Anselmi e Marcello Ghilardi, a cui si riferisce l’articolo in download.