La salute del cervello al centro dello studio (©Fotolia.com)

Ricerca

Prevenzione dell’Alzheimer, uno sguardo al futuro

UniTrento rappresenta l’Italia nella task force internazionale che getta le basi per servizi di nuova generazione

2 febbraio 2023
Versione stampabile
di Elisabetta Brunelli
Ufficio Stampa e Relazioni esterne

La malattia di Alzheimer è la forma più diffusa di demenza. Determina decadimento cognitivo, perdita di memoria, crescente disabilità fisica, irreversibile perdita di autonomia. Il Rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) riporta stime allarmanti: con l’invecchiamento della popolazione i casi di demenza che erano 35,6 milioni nel 2010, raddoppieranno nel 2030 e triplicheranno nel 2050 con un notevole impatto sui sistemi sanitari. In Europa oggi sarebbero 10 milioni le persone colpite e 1.500 miliardi di dollari il costo stimato su scala globale. La prevenzione dell’Alzheimer è, dunque, una vera e propria sfida. Sociale ed economica. Dal 2020 è al lavoro una task force internazionale. Il gruppo è coordinato dall’Università e dagli Ospedali universitari di Ginevra ed è composto da scienziati/e e professionisti/e con competenze diverse appartenenti a ventotto istituzioni europee. UniTrento è l’unica realtà italiana coinvolta con Alessandra Dodich e Carlo Miniussi del Centro Interdipartimentale Mente/Cervello. L’obiettivo della collaborazione scientifica è gettare le basi per un nuovo sistema di prevenzione della demenza, in cui le evidenze basate sulla ricerca avranno un ruolo di primo piano.

Dottoressa Dodich, a che punto è il lavoro della task force internazionale?

«Abbiamo definito un insieme di linee guida, dall’approccio multidisciplinare, che vanno ad affrontare tutti i vari aspetti della salute del cervello. Le linee guida dovranno servire per impostare dei servizi di prevenzione di nuova concezione. Proprio in questi giorni è stato pubblicato su The Lancet Regional Health – Europe l’articolo “Dementia prevention in memory clinics: recommendations from the European task force for brain health services”, nel quale descriviamo questo nuovo modello di prevenzione della demenza».

Quale caratteristica dovranno avere questi servizi?

«Dovranno aiutare la popolazione a mantenere un buono stato di salute in generale attraverso interventi multi-dominio, interventi cioè che vadano a potenziare contemporaneamente diversi aspetti quali il benessere fisico, cognitivo, sociale e così via».

Contro l’Alzheimer, la prevenzione per ora è l’unica strada percorribile. Quando si deve iniziare?

«Attualmente vi sono diversi studi promettenti che mirano a definire nuovi interventi farmacologici e non farmacologici efficaci nel rallentare o contrastare il decorso di malattia. Tuttavia, questi nuovi servizi sono pensati per una fascia di persone la cui memoria funziona ancora bene e che desiderano preservarla e migliorarla. Per loro, attualmente, non esistono dei programmi efficaci».

Oggi sembra esserci un’insorgenza precoce della malattia. Ci sono dei riscontri scientifici in questo senso?

«Quello di cui abbiamo riscontro è che oggi, in Europa, i segnali della malattia vengono rilevati sempre prima, nello stadio iniziale dell’Alzheimer. Ciò accade perché c’è una maggiore sensibilità sul tema e anche perché disponiamo di tecnologie sempre più avanzate».

Dalle linee guida arrivano una serie di raccomandazioni ai centri per i disturbi cognitivi e le demenze e gli altri servizi clinici attivi sul territorio a favore della salute del cervello. Il primo pilastro riguarda la valutazione del rischio. Su quali aspetti si può intervenire?

«I fattori di rischio per la malattia di Alzheimer e disturbi correlati includono fattori genetici e altri legati a stile di vita o condizioni, come ipertensione, diabete, consumo di alcol, isolamento sociale, obesità, perdita dell'udito, depressione o trauma cranico. La prevenzione parte, quindi, dal miglioramento degli stili di vita (attività fisica, attenzione all'alimentazione, prevenzione cardiovascolare). Agendo su di essi si può iniziare a ridurre il rischio di sviluppare demenza dovuta a malattia di Alzheimer e forme correlate».

Altro aspetto importante è la comunicazione del rischio: come si raggiunge la popolazione?

«Comunicare l'indice di rischio nel modo più accurato e comprensibile è fondamentale e ciò può avvenire solo se si instaura una relazione di fiducia tra servizi e paziente. In effetti, comprendere il rischio di sviluppare una malattia è più complesso che comprendere di essere effettivamente colpiti da una malattia. Una serie di raccomandazioni basate sulla personalità e sul background del paziente consentono di scegliere le strategie e gli strumenti migliori per presentare a lui e alla sua famiglia la situazione in modo comprensibile».

Il terzo livello riguarda la riduzione del rischio. Su cosa si deve far leva e in quale fascia di età si deve iniziare?

«Per la riduzione del rischio vengono presi in considerazione interventi farmacologici e non farmacologici. Questi vanno dal miglioramento dello stile di vita all'allenamento cognitivo alla possibile somministrazione di nuovi farmaci, qualora venissero introdotti sul mercato. In futuro potrebbero essere presi in considerazione anche interventi sul microbiota intestinale. Occorre agire sui fattori di rischio modificabili. Alcuni si distribuiscono lungo tutto l’arco della vita. È il caso della stimolazione cognitiva, che inizia negli anni della scuola e deve accompagnare la persona in età adulta, matura e avanzata».

Il maggiore investimento andrà quindi dedicato al potenziamento cognitivo?

«Il potenziamento cognitivo è di primaria importanza. Diversi aspetti possono essere rafforzati o stimolati, come la memoria, l’attenzione, o le capacità di pianificare e risolvere problemi complessi. Anche la stimolazione elettrica o magnetica transcranica sarà uno strumento sempre più utilizzato per favorire la plasticità nelle regioni chiave del cervello e quindi migliorare il funzionamento cognitivo. Le evidenze ci dicono che la riduzione del rischio è più efficace se combinata in interventi multi-dominio, e da questo punto di vista avrà un ruolo decisivo la sinergia tra ricerca universitaria e servizi sanitari».