Giovanni Varelli osserva un manoscritto medievale

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Scavare nei manoscritti, con la fotografia

Giovanni Varelli, ricercatore Marie Curie, ha riportato alla luce testimonianze di musica liturgica rimaste nascoste per secoli

8 giugno 2023
Versione stampabile
di Johnny Gretter
Studente collaboratore Ufficio stampa e relazioni esterne

Se una persona vissuta nell’anno Mille si trovasse davanti a una comune libreria di casa, probabilmente resterebbe davvero impressionata dal numero di volumi che spesso possediamo. Nel Medioevo, infatti, i libri erano oggetti piuttosto rari, di solito fatti di pergamena, un materiale molto dispendioso da ottenere. Così dispendioso da venire riciclato: è il caso dei palinsesti, i manoscritti in cui la pergamena è stata riutilizzata dopo essere stata raschiata o lavata con particolari sostanze per cancellare la scrittura preesistente. Tuttavia, non è detto che il testo cancellato sia perduto per sempre: l’inchiostro lascia delle tracce poco visibili a occhio nudo, ma ancora leggibili attraverso l’uso di lampade UV o particolari tecniche di fotografia digitale. Questa seconda via ha permesso a Giovanni Varelli, ricercatore EU-Marie Sklodowska Curie Action del Dipartimento di Lettere e Filosofia, di recuperare alcune antichissime testimonianze italiane di canto liturgico.   

Dottor Varelli, lei sta studiando particolari manoscritti che si chiamano palinsesti. Che cosa contenevano prima di venire sovrascritti?

«In origine, i manoscritti di cui mi sono occupato contenevano canti liturgici cristiani, chiamati comunemente canti gregoriani, accompagnati dalla loro notazione musicale. Parte di essi erano cantati durante la messa, mentre gli altri appartenevano alla Liturgia delle Ore, una pratica liturgica delle comunità religiose che consisteva in una serie di canti distribuiti in momenti precisi della giornata. Lo scopo del mio progetto di ricerca, "Musica Restituta", è quello di far riemergere la parte di scrittura cancellata, la cosiddetta scriptio inferior, e in un secondo momento creare un database digitale che permetta una visualizzazione più semplice ed efficace dei manoscritti. In particolare, ho preso in esame cinque palinsesti risalenti a un periodo compreso tra il X secolo e la metà dell’XI».

Quindi si tratta di testimonianze che risalgono a quasi un millennio fa. Come è stato possibile riportare alla luce una scrittura che è rimasta cancellata per così tanto tempo?

«Per farlo ho utilizzato due tecniche di recupero digitale: la fotografia digitale e il post-processing, cioè una rielaborazione delle foto tramite software di image editing. Quanto alla fotografia, ho utilizzato una fotocamera molto sofisticata, in grado di scattare ai manoscritti foto ad altissima risoluzione. Abbiamo ottenuto migliaia di foto, molte di queste scattate con filtri fotografici che captano solo alcune specifiche bande dello spettro luminoso. Quando la luce colpisce la superficie del palinsesto viene rifratta dagli inchiostri e dalla pergamena: grazie ai filtri, la macchina fotografa solo alcuni elementi di questa rifrazione. Questo è utile per mettere in evidenza delle parti del manoscritto rispetto ad altre, ma soprattutto è di grande aiuto in fase di post-processing. Le foto catturate con filtri diversi, infatti, possono essere combinate in immagini multispettrali: un’immagine con un filtro giallo, blu o rosso può dire poco o niente da sola, ma se viene combinata con altre fotografie allora si possono raggiungere dei risultati molto interessanti. Per queste operazioni di post-processing ho usato sia un programma di editing molto comune come Photoshop, ma anche un software incredibilmente sofisticato come ENVI, utilizzato anche dalla NASA per processare le immagini satellitari».

Cos’è emerso da questo lavoro di recupero digitale?

«In realtà, non sempre è stato possibile recuperare interamente la scriptio inferior dei palinsesti. A volte rimangono unicamente tracce di inchiostro, quindi è possibile ricostruire solo pochissimi segni. In altri casi, invece, è stato possibile far riemergere testi e notazioni musicali in modo più completo. I palinsesti hanno confermato alcuni dati già noti sulla nascita della notazione musicale in Italia. La maggior parte delle zone d’Italia adottavano dei modelli notazionali provenienti da regioni d’oltralpe come la Germania o la Bretagna. Anche se i palinsesti non hanno rilevato tracce di notazioni che si discostano da questi modelli, la loro analisi ha permesso di recuperare alcune delle più antiche tracce di queste notazioni. Inoltre, hanno confermato come i manoscritti liturgici, con le loro notazioni, circolassero molto in Europa, screditando una idea ancora diffusa del Medioevo come periodo oscuro in cui le persone non avevano contatti tra di loro: questi manoscritti dimostrano il contrario e fanno luce sulle prime fasi dell'utilizzo di notazione musicale in Italia».

Quelli che ha utilizzato sembrano metodi di ricerca davvero pionieristici. Pensa che le scienze umane potrebbero trarre nuovi spunti di ricerca da queste nuove tecniche?

«In effetti, molti studi rimangono ancorati a domande e approcci di ricerca troppo datati. Magari si basano su domande interessanti, ma troppo spesso riguardano fonti o repertori già ampiamente conosciuti. Finora, invece, non si era mai pensato di fare uno studio su larga scala sui palinsesti musicali, sperimentando nuove tecniche di recupero digitale. Musica Restituta mostra quanto queste tecniche siano efficaci e come la ricerca si possa dirigere verso campi di studio poco frequentati. Il recupero digitale dei palinsesti è una ricerca alle frontiere della mia disciplina; un approccio che si spinge verso nuovi obiettivi e che riporta alla luce, come in uno scavo archeologico, tracce di musica scritta nascoste da migliaia di anni».