Astronaut Buzz Aldrin on the moon. NASA. Wikimedia Commons

Storie

I primi passi sulla Luna e noi

Come la ricerca spaziale ha cambiato la nostra vita

24 luglio 2019
Versione stampabile
di Claudio Sacchi
Professore aggregato del Dipartimento di Ingegneria e Scienza dell’Informazione (DISI) dell’Università di Trento.

Sono passati cinquant’anni da quel 20 luglio 1969, mezzo secolo da quando la prima orma umana è stata impressa sulla Luna. Ventiquattro anni prima, nel novembre 1945, il giovane fisico inglese Arthur C. Clarke, che si dilettava a scrivere romanzi di fantascienza (autore del best-seller 2001 Odissea nello Spazio), aveva già pubblicato un breve articolo che proponeva una tecnologia tanto rivoluzionaria, quanto visionaria: il satellite artificiale per telecomunicazioni. Con l’articolo di Clarke  Extra Terrestrial Relays si entra ufficialmente nell’Era Spaziale e in quell’incredibile quarto di secolo nel quale la competizione per la conquista della Luna ha prodotto la più straordinaria accelerazione scientifica e tecnologica che la storia ricordi. Un’accelerazione che ha coinvolto tutta la società, che in quel balzo si è riconosciuta e di quei progressi ha goduto i benefici.

L’articolo di Clarke uscì su una rivista americana, ma, incredibilmente, il primo satellite artificiale (il leggendario Sputnik) fu lanciato nel 1957 dall’Unione Sovietica. Possibile che l’URSS, da poco uscita dallo stalinismo, fosse stata in grado di superare nella corsa allo Spazio gli Stati Uniti? Possibile, perché i sovietici credettero per primi in quel tipo di tecnologia, mentre negli USA - soprattutto dai militari - era ancora considerata fantascienza. Grave errore, che ben presto venne riconosciuto. La rincorsa per gli americani sarebbe stata alquanto affannosa. I sovietici furono infatti in testa nella corsa alla Luna fino all’ultimo miglio, ma persero il rush finale, per motivazioni ancora oggi difficili da comprendere e da chiarire.

Il primo uomo a compiere un’orbita intera attorno alla Terra fu un sovietico - Gagarin - così come il primo a “passeggiare” nello Spazio - Titov. E fu sovietico anche il primo veicolo a toccare fisicamente il suolo lunare senza pilota: il Lunik 9 nel febbraio 1966. Alla fine, gli americani arrivarono primi nel raggiungere l’obiettivo più ambizioso ma, come disse Aldrin, quello era un passo che non avevano compiuto solo gli Stati Uniti, ma l’umanità intera. E anche i sovietici, battuti con onore, avevano dato il loro contribuito. I sovietici masticarono amaro in quel 20 luglio - l’annuncio dell’arrivo di Apollo 11 sulla Luna fu dato dall’agenzia Tass -, ma porsero cavallerescamente le congratulazioni ai rivali.

Quella fu un’epopea, segnata soprattutto dai volti degli astronauti (americani) e dei cosmonauti (sovietici): Alan Shepard, John Glenn, Yury Gagarin, Valentina Tereshkova, la prima donna a bordo di un veicolo spaziale.

Con la ricerca spaziale, la tecnologia satellitare uscì dall’infanzia ed entrò nell’era adulta. Cinque anni prima del primo passo di Armstrong e Aldrin sul nostro satellite naturale, un satellite artificiale per telecomunicazioni (Syncom III) irradiava in tutto il Mondo le Olimpiadi di Tokyo in diretta. Così, gli italiani poterono assistere al trionfo del marciatore friulano Abdon Pamich e all’impresa dello sprinter americano Bob Hayes, primo uomo a scendere sotto i dieci secondi nei 100 metri. Il Mondo stava diventando il “villaggio globale” di McLuhan e questo fu dovuto, in gran parte ai satelliti, che coprivano di informazioni il globo in tempo reale. Proprio in quegli anni si stava perfezionando la tecnologia di radiolocalizzazione basata su satelliti, oggi conosciuta con l’acronimo GPS.

La ricerca spaziale spinse in maniera decisiva anche la tecnologia informatica verso quei traguardi di efficienza e portabilità che sarebbero stati raggiunti nei decenni successivi dai personal computer. All’epoca, un computer mainframe era un oggetto che occupava non una, ma più stanze. Per supportare le funzionalità di un veicolo spaziale, le cui dimensioni erano spaventosamente ridotte, ci volevano computer molto più piccoli, ma parimenti efficienti. E così nacque il computer installato a bordo dell’Apollo 11, che era più piccolo di una scatola da scarpe e che uno dei suoi progettisti, Don Eyles, continua a ritenere, a distanza di cinquant’anni, un’architettura di elaborazione assai avanzata dato che, comunque, con quel mini-computer siamo andati e tornati dalla Luna. Anche lo sviluppo del software subì un’accelerazione. Eyles ricorda che, dovendo operare in condizioni critiche, dove non erano possibili interventi correttivi, il software operante sulla navicella Apollo doveva essere testato e ottimizzato in maniera particolare, aprendo la strada all’implementazione pratica di nuovi concetti di Ingegneria del Software che, fino ad allora, erano rimasti allo stato eminentemente teorico.

La meta della Luna non fu raggiunta senza perdite dolorose di vite umane: dalla tragedia di White, Grissom e Chaffey, morti nel gennaio 1967 nell’incendio del volo di prova di Apollo 1 al crash spaziale che in quel 1967 - che fu “l’anno nero” delle missioni spaziali - coinvolse al rientro il cosmonauta sovietico Vladimir Komarov.

Aggiungo, a questo punto, un po’ di (piccoli) ricordi personali legati all’era delle missioni spaziali. Chiunque abbia vissuto quel 20 luglio 1969, ricorda precisamente dov’era e cosa faceva. Io avevo appena compiuto quattro anni e quindi non ho che un confuso e lontano ricordo di una notte di veglia trascorsa dalla mia famiglia. Eppure, assorbii gli echi di quell’epopea spaziale, nonostante fossi piccolo, così come assorbii gli echi della musica dei Beatles, di Lucio Battisti e del nascente rock progressivo che, agli inizi, grazie soprattutto al David Bowie di Space Oddity, ma anche ai King Crimson di Moonchild era anche un po’ “spaziale”. I miei giocattoli erano in larga parte ispirati allo Spazio: dischi volanti a batteria, che non volavano ma passeggiavano sul pavimento, robot di metallo che si muovevano, pistole “spaziali” che non sparavano proiettili, ma facevano un po’ di rumore e di luce e la mia prima “mascherina” di carnevale, che era una tuta da astronauta con tanto di casco e simbolo della NASA cucito sulla manica. Era una tuta di color argento, un modello già allora in disuso, sostituito a partire dal 1965 dalle tute di colore bianco, come quella che indossarono Armstrong, Aldrin e Collins. Ma tanto bastava per farmi sentire un piccolo astronauta e farmi pensare che, in futuro, mi sarei occupato in qualche modo di materie inerenti lo Spazio. Come, in effetti, in età adulta è avvenuto.

Per concludere, c’è da porsi una domanda: “Ne è valsa la pena?” Personalmente ritengo di sì, perché dalle missioni spaziali abbiamo avuto ricadute tecnologiche positive che hanno cambiato in meglio la nostra vita. E poi, abbiamo ancora una volta dimostrato che, a volte, ciò che sembra impossibile, può diventare possibile. D’altronde, se non ne fosse valsa la pena, le grandi potenze di oggi - Stati Uniti, Russia, Cina, Europa e persino Israele - non penserebbero di tornarci nel prossimo futuro. La Luna è tornata d’attualità, in questo 2019, anche per la ricerca scientifica. Chi l’avrebbe detto, solo qualche anno fa?