Albero della vita, Sinagoga Dohani, Budapest. Su ogni foglia è inciso il nome di una vittima dell’olocausto | @mirianademarco, fotolia.com

Storie

IL GIORNO DELLA MEMORIA

Ricordare la Shoah: il rifiuto della barbarie, una lezione di futuro e di umanità. Intervista a Massimo Giuliani.

24 gennaio 2016
Versione stampabile
di Marinella Daidone
Lavora presso la Divisione Comunicazione ed Eventi dell’Università di Trento.

Il 27 gennaio 1945 le truppe sovietiche dell'Armata Rossa, nel corso dell'offensiva in direzione di Berlino, arrivarono al campo di concentramento di Auschwitz e ne liberarono i superstiti. Per commemorare le vittime dell’Olocausto, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha scelto la data del 27 gennaio come “Giorno della Memoria”. Ne abbiamo parlato con il professor Massimo Giuliani, docente di Pensiero ebraico presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Ateneo. 

Professor Giuliani, cosa rappresenta Auschwitz a livello storico e simbolico?

Auschwitz è diventato il più potente simbolo della ‘barbarie nazi-fascista’ ossia di politiche e di ideologie dichiaratamente razziste e antisemite, che hanno portato allo sterminio di un terzo del popolo ebraico esistente negli anni Quaranta del Novecento. Per questo la memoria della Shoah (termine ebraico per indicare devastazione e annientamento) è diventata parte della civil religion europea di questi decenni. Qualcuno ha anche detto che l’Europa è nata ad Auschwitz. Ciò è vero se inteso nel senso che l’identità europea, pur così frammentata a livello linguistico, storico e culturale, ha trovato un momento di unità e di coesione attorno al rifiuto di quella barbarie, all’indignazione per ogni guerra espansionista e per ogni forma di razzismo. A distanza di settant’anni circa, tuttavia, semi di nostalgia per le ideologie del “sangue e suolo” stanno purtroppo germogliando di nuovo. Il 27 gennaio è l’occasione per riflettere anche sul futuro dell’Europa come crocevia di culture e di popoli, di valori religiosi e di tolleranza civile (dopo secoli di conflitti teologici e politici).

“Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte e oscurate: anche le nostre”. Può commentare queste parole di Primo Levi?

Primo Levi è stato non solo un sopravvissuto ad Auschwitz, dunque un testimone oculare, che ha raccontato in modo efficace e onesto la sua esperienza in quel campo di lavoro coatto e di sterminio; è stato anche un critico dei rischi dell’oblio e della memoria, che sono due facce di un medesimo fenomeno umano. Gli unici, veri antidoti a quei rischi – l’oblio e una memoria manipolata e distorta – sono l’educazione delle coscienze ai valori di libertà e giustizia, la coltivazione del senso critico dinanzi alla propaganda, la cura a tutelare i deboli e i più vulnerabili. La magnitudo delle sofferenze sofferte dalle vittime nella Shoah può davvero sopraffarci, ed è per questo che a volte “comprendere è impossibile”. E tuttavia abbiamo, le nuove generazioni hanno il diritto e il dovere di sapere, di conoscere in modo oggettivo e non solo emotivo, cosa e come è successo ai perseguitati del nazi-fascismo nel corso della seconda guerra mondiale. Per questo ho messo insieme una serie di saggi di molti studiosi, pubblicati da La Scuola di Brescia, e l’ho intitolata semplicemente “Conoscere la Shoah”.

Storia e memoria sono la stessa cosa? Che importanza ha per noi oggi ricordare l’Olocausto?

La memoria della Shoah, in senso proprio, è quella dei testimoni sopravvissuti, delle vittime che sono tornate a raccontare. Ma tale memoria è individuale e soggettiva: a volte è sopita, a volte è ossessiva, comunque sempre selettiva. È uno strumento meraviglio e fallace, la descrisse Primo Levi. Perciò occorre la ricostruzione e lo studio della storia, la contestualizzazione degli eventi, la ricerca e la comprensione delle cause vicine non meno di quelle remote. Se il “giorno della memoria” non diventa anche il giorno della consapevolezza storica, tale memoria è destinata a diventare la fissazione di pochi o un rito vuoto che si esaurisce con il tempo, e non quella lezione di futuro e di umanità implicita nella coscienza che tali cose non devono più ripetersi, in nessuna parte del mondo.

Oggi assistiamo a intolleranze, scontro di civiltà, guerre e terrorismo in nome della religione. Lei, come filosofo e come persona, pensa che l’essere umano possa imparare a convivere in pace?

Da tempo, sulla scia di Gramsci, coltivo il “pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà”. E soprattutto credo nella forza delle idee, che come gocce, se instillate a dovere, scavano le pietre. Non so rispondere alla domanda se l’uomo sia per natura violento e incline alla guerra, come la storia e a volte anche l’etologia lasciano intendere; ma credo che l’educazione cambia, almeno un poco, il modo in cui gli uomini si relazionano tra loro. Le religioni, quando hanno una base etica e insegnano i valori della libertà e della giustizia, possono essere efficaci strumenti per estirpare i sentimenti di odio e l’aggressività. Lo hanno detto qualche giorno fa il papa e il rabbino capo di Roma nella sinagoga maggiore: nessun credente può uccidere in nome di Dio. Se questo avviene, quel Dio è ormai diventato un feticcio, un idolo e al posto della religione rimane solo un’ideologia anti-umana. Il terrorismo oggi vuol portare dei pezzetti di Auschwitz in giro per il mondo. Combatterlo è un triste dovere al quale, ahinoi, non possiamo sottrarci. A volte, l’inerzia e l’ignavia sono le vere alleate di chi nega, anzitutto a se stesso e poi violentemente agli altri, i valori della dignità umana e della giustizia. È necessario resistere, anzi occorre un’etica della resistenza e una resistenza dell’etica. Il giovani filosofi della Rosa Bianca, che a Monaco nel 1943 fecero resistenza a Hitler, mostrano che ciò è possibile, anche se bisogna essere disposti a pagarne il prezzo. Nello stesso anno, nel ghetto di Varsavia gli ebrei fecero resistenza ai nazisti, sebbene poi vennero sterminati, ma la memoria di quegli eventi dice che resistere è possibile, anzi doveroso. Il 27 gennaio insegna anche questo.