Immagine tratta dalla copertina del libro

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L’ULTIMO LENZUOLO BIANCO

Il libro di Farhad Bitani sull’Afghanistan tra orrori della guerra ed esperienza personale

19 aprile 2016
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L’ULTIMO LENZUOLO BIANCO
di Salvatore Abbruzzese
Professore ordinario del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento.

La guerra in Afghanistan così come il più ampio scenario della guerra civile che sta dilaniando il Medio Oriente pongono in modo crescente la necessità di possedere una documentazione adeguata per analisi che si impongono per chiunque è interessato all’intreccio tra dimensione politica e dimensione religiosa

La testimonianza di Farhad Bitani – figlio di un generale dei mujaheddin fedele al presidente afghano Karzai – unisce alla documentazione eccezionale sulla tragedia umana della guerra, la testimonianza di un percorso personale che lo porta dall’Afghanistan in Italia, dall’esercito Afghano nel quale occupa i gradi di capitano alla collaborazione con la Questura di Torino come rifugiato politico. 

Oggi Farhad Bitani, convintamente afghano e musulmano, è un testimone prezioso per capire non solo il delirio di una guerra dove, alla luce di un uso strumentale e criminale dei principi religiosi, ogni degrado ed ogni abiezione umana trionfano, ma anche il percorso tutto privato e personale che può condurre ad uscirne fuori e a guardare quest’universo dall’esterno.

Il degrado umano appare infinito, il testo del libro che Bitani ha scritto in Italia procede impietoso nella descrizione delle oscenità operate dalle bande di criminali, rivestite da un credo religioso immaginario che funge, al tempo stesso, da contenitore identitario e da imperativo di sterminio. Bitani vive dentro un tale universo fin dalla nascita, osservandolo sia dall’alto della scala sociale quando il padre è ai vertici dell’amministrazione di Karzai, sia dal basso dell’anonimato quando questi è fatto prigioniero a Kandahar nel 1997 e tutta la famiglia è costretta a nascondersi, vivendo nella miseria più profonda.

Ma nel libro non vi compaiono solo atrocità e nefandezze, non si assiste solo al girare a vuoto di qualsiasi razionalità ed alla conseguente abolizione di qualsiasi principio di umanità. Là dove la religione non è che la parodia di se stessa anche la ragione appare disancorata da qualsiasi logica capace di regolarla. 

Nel libro di Bitani appare anche la denuncia delle reti di corruzione e di malaffare che rendono del tutto inutili gli aiuti umanitari. Nell’orrore afghano il denaro proveniente dall’Occidente viene rapidamente tradotto in beni di lusso per un potere che dalle istituzioni conflagra nelle mille bande armate che conquistano brandelli di territorio. Nello sbandamento continuo delle emozioni, sempre ad un filo dalla morte, là dove il vilipendio dei cadaveri costituisce il punto zero dell’umano, Farhad, rifugiatosi in Italia, si imbatte con l’umanitarismo di una società che non è in guerra contro nessuno. Il mondo italiano, percorso da attenzioni e dal rispetto dell’altro, quando non addirittura da tenerezze materne, apre un universo che lo scuote pur non mutandolo ancora in nulla. 

Tornato in Afghanistan nel 2011 per una vacanza, Farhad viene ferito in un attentato. È alla luce di questo trauma, interpretato come segnale, che questi inizia a riconoscere la distanza che oramai si è instaurata con l’universo della guerra e del delirio afghano. Farhad inizia a scrivere narrando, prima ancora della sua storia personale, l’orrore di cui è stato testimone.

La denuncia di Farhad è spietata. Lo colpisce la simulazione di un’adesione religiosa alle leggi della Sharia, tanto più ostentata quanto più trasgredita non appena si gode dell’anonimato dato dalla notte, o concesso dalla lontananza in un altro Paese, fino a quello permesso da un auto con i vetri oscurati. Ma Bitani è scosso anche dal divario tra il delirio dell’orrore al quale assiste fin dall’infanzia in Afghanistan e la quieta e serena instaurazione dell’umano in un’Italia che non sogna minimamente di convertirlo.

Di fatto è l’accoglienza assieme alla spontanea cordialità di un territorio felicemente approdato alla ragione e ad una religione di rispetto dell’altro che Bitani riscopre un modo del tutto nuovo di recuperare la propria religione musulmana. È l’incontro con l’altro a favorire un recupero della propria identità di fatto rimasta confiscata dalle parole d’ordine di un conflitto totale. 

Farhad inizia a leggere in prima persona un Corano fino a quel giorno percepito solo attraverso le parole d’ordine e gli stereotipi della parodia criminale dei mille mullah improvvisati. Testimone della guerra, Frahad è anche il protagonista di un percorso che lo porta verso il recupero dell’umano. L’Italia dell’accoglienza è anche quella che gli restituisce la possibilità di un’appartenenza reale alla propria credenza religiosa: l’incontro con l’altro appare essenziale per un recupero di un’identità dove la ragione è compagna di cammino.

Il 15 marzo scorso Farhad Bitani è stato ospite dell’Università di Trento per presentare il suo libro "L’ultimo lenzuolo bianco: l’inferno e il cuore dell’Afghanistan". Il suo intervento è stato introdotto dal professor Salvatore Abbruzzese.