Notte europea dei ricercatori 2021. Foto di Giulia Curti.

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Linguaggio e genere: come parliamo

Uno dei salotti scientifici della Notte europea dei ricercatori. Conversazione con Stefania Cavagnoli

26 ottobre 2021
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Barbara Poggio
di Barbara Poggio
Professoressa ordinaria del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento, è prorettrice alle Politiche di equità e diversità dell’Ateneo.

L’idea di parlare di genere e linguaggio nell’ambito della Sharper night è nata dopo aver notato che, sebbene due anni fa gli organizzatori dell’evento notturno dedicato alla ricerca, avessero concordato di usare l'espressione di "notte della ricerca", anziché di "notte dei ricercatori", così da essere maggiormente inclusivi, l’edizione di quest’anno, organizzata insieme a un più ampio network di università e organismi di ricerca, è tornata ad utilizzare il termine "ricercatori", inteso come maschile facente funzione di neutro plurale. 

L’Università di Trento negli ultimi anni si è dotata di linee guida per un linguaggio rispettoso delle differenze, proprio a partire dalla consapevolezza che l’attenzione al linguaggio non è una questione accessoria, ma un tema cruciale, perché le parole costruiscono la realtà. È a partire da queste premesse che è nato il dialogo con Stefania Cavagnoli, professoressa dell’Università di Roma Tor Vergata, una tra le principali esperte in Italia di linguaggio di genere.

La prima sollecitazione riguarda il ruolo fondativo della lingua nella costruzione identitaria e della conoscenza. Ne parlate insieme a Francesca Dragotto, nel libro “Sessismo” recentemente pubblicato, e mi pare una questione cruciale nella riflessione su genere e linguaggio. In che modo il linguaggio contribuisce a produrre stereotipi e disuguaglianze nel corso del processo di crescita?

La lingua costruisce la realtà e la sua rappresentazione, è inserita in una determinata cultura che tramanda stereotipi e pregiudizi. A partire dall’acquisizione della lingua, si costruiscono e si rafforzano credenze, attribuendo loro la qualifica di “oggettività”, di realtà condivisa. Le parole invece non sono oggettive, ma quando sono usate – incastonate nelle situazioni in cui ricorrono – fanno da modello per la progressiva emersione di “parole” in chi ancora non le maneggia ma presto lo farà, non rendendosi però conto del prezzo che andrà a pagare per poter disporre dei vantaggi propri delle lingue: l’impossibilità di “vedere” la realtà in modo autonomo rispetto alla lingua per mezzo della quale la si rappresenta e ripensa, per poi, all’occorrenza, comunicarla.

Più facile da definire che da riconoscere nelle azioni, verbali e non, che permea di sé, il sessismo (in primo luogo linguistico) costituisce una forma di discriminazione delle persone sulla base del sesso e del genere di appartenenza. 

Si sorregge e si esprime in una visione del mondo per la quale, come corollario del riconoscimento, nell’individuo, dell’appartenenza a uno dei due generi sessuali, gli si attribuiscono qualità, anche caratteriali, e ruoli. Modi di essere e spazi di azione che prescindono dalle potenzialità, dall’autopercezione e dalle aspirazioni proprie della singola persona, ma che vengono comunemente riconosciute e accettate come “normali” in forza del ruolo che le narrazioni sociali hanno nella creazione della conoscenza condivisa in cui si riconosce una società.

Breve il passo che conduce alla stigmatizzazione e, spesso, alla discriminazione, anche “solo” morale, di chi, non rassegnandosi allo spazio in commedia di propria competenza, ricerca una emancipazione dal copione e rivendica il diritto di recitare a soggetto. In tal senso è necessaria una riflessione sulle norme a protezione dei soggetti che non si riconoscono in ruoli predefiniti. 
Insomma, si scrive sessismo, si legge la vita segnata dal proprio sesso, fin dalla nascita.

A proposito dell’uso sessista delle parole, c’è un secondo aspetto che credo sia utile richiamare e che riguarda l’uso talvolta estremo (e oltremodo sessista) delle parole che troviamo oggi su quelli che sono diventati i principali canali di comunicazione, vale a dire i social media. Le ricerche sui discorsi d’odio, come ad esempio quelle realizzate dall’osservatorio Vox, o da Amnesty International, ci restituiscono un quadro in cui il genere rappresenta una delle principali dimensioni da considerare: tra i principali destinatari di discorsi d’odio sui social media ci sono infatti le donne, soprattutto coloro che prendono parola pubblica, come ad esempio le politiche. Come possiamo leggere questo fenomeno?

In effetti le donne, secondo diversi studi, sono spesso destinatarie di parole violente. Soprattutto chi gestisce posizioni politiche è bersaglio di violenza che passa necessariamente attraverso le parole utilizzate nella comunicazione. È inquietante osservare che la lingua d’odio è sempre una lingua legata alla sessualità e al corpo, se ci si rivolge alle donne o ad altre persone che non rientrano nel profilo di uomo. La donna è corpo, l’uomo è testa. E se le offese sono dirette ad un maschio, spesso si realizzano attraverso attribuzioni (di nuovo sessuali) verso donne legate all’uomo (madre, sorella...). Nella ricerca linguistica emerge il ruolo determinante della cultura di riferimento: la lingua italiana non è discriminante, l’uso che ne fa la comunità linguistica invece sì. Per questo motivo i modelli positivi, rispettosi delle persone, sono fondamentali per un cambiamento. Linguistico e sociale.
 
C’è infine un’ultima questione che proporrei di esplorare e riguarda le possibili strategie per affrontare i fenomeni di cui abbiamo parlato per produrre un cambiamento effettivo. Nella nostra università abbiamo promosso varie iniziative, dalle linee guida per il linguaggio a quelle per l’organizzazione degli eventi, dalle iniziative per il contrasto alle molestie a quelle rivolte al riequilibrio delle carriere… ma il problema è radicato e non è facile superarlo, anzi a volte si rischia anche di tornare indietro. Cos’altro si può fare per riuscire a incidere in modo più profondo, in particolare sul piano di un uso più consapevole e meno discriminante del linguaggio?

Le vie sono principalmente due: l’educazione e l’esempio. Molto è già stato fatto dalle università, dalle istituzioni e dagli ordini professionali, a partire dall’ambito del giornalismo e dell’avvocatura. E questo è un segno importante: si tratta in primo luogo, della presa di coscienza della questione delle università, che possono procedere all’emanazione di linee guida, indicative di un cambiamento rispettoso del genere. Permangono però credenze legate alla lingua (il ruolo è maschile, si è sempre fatto così...) anche da parte di persone esperte, che utilizzano la lingua a livello istituzionale. Forse si potrebbe partire, sulla base di molte riflessioni scientifiche e ricerche interdisciplinari, proprio da loro, alla ricerca di una maggior consapevolezza, base di ogni cambiamento possibile.

Dopo un anno di pausa dovuto alla pandemia da Covid-19, è tornata la Notte europea dei ricercatori che lo scorso 24 settembre ha animato il MUSE e il quartiere Le Albere di Trento.
Promossa da Università di Trento, Fondazione Bruno Kessler, Fondazione Edmund Mach e MUSE, da quest’anno entra a far parte della rete Sharper night - SHAring Researchers’ Passion for Engaging Responsiveness, uno dei progetti italiani sostenuti dalla Commissione europea per la realizzazione della Notte europea dei ricercatori.  
Stand aperti al pubblico, salotti scientifici, spettacoli e tour virtuali hanno visto impegnarsi ricercatori e ricercatrici per comunicare la loro passione per la ricerca.
Il salotto scientifico “Linguaggio e genere: parliamo di come parliamo” con Barbara Poggio e Stefania Cavagnoli, che si è svolto all’Urban Coffee Lab, è stato molto partecipato, nonostante le limitazioni (accesso con green pass, distanziamento ecc.) dovute alla pandemia.