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Una conversazione infinita. Perchè ritradurre i classici

a cura di Antonio Bibbò e Francesca Lorandini

11 dicembre 2023
Versione stampabile

Perché ritradurre un classico? Nella costante variazione dei regimi retorici ed epistemici della ricezione, la lingua, le pratiche traduttive e le strategie editoriali si trasformano nel tempo, cadono alcune forme di censura, riaffiorano a volte, con l’indagine filologica, nuovi elementi dell’originale. Fra l’opera, i suoi traduttori e i nuovi lettori si instaura una conversazione infinita che racconta le avventure politiche e socioculturali della lingua, permettendo di posare un occhio attento sul farsi e il disfarsi del canone letterario nelle maglie della storia.
Gli studi qui raccolti – dalle ritraduzioni ottocentesche del Don Chisciotte a quelle di Orwell negli anni ’20 del XXI secolo, passando per la ritraduzione della Bibbia in tedesco di Buber e Rosenzweig, le ritraduzioni novecentesche di Villon fino alle più recenti ritraduzioni italiane di Billy Budd di Melville, di Cent’anni di solitudine di García Márquez e della Peste di Camus – consentono di osservare la letteratura attraverso le innumerevoli dinamiche della ritraduzione: il tempo che si sedimenta fra una versione e l’altra acuisce il nostro sguardo, lo rende più consapevole e intenso.

Antonio Bibbò è ricercatore presso il Dipartimento di Lettere e filosofia dell'Università di Trento
Francesca Lorandini è ricercatrice presso il Dipartimento di Studi linguistici e culturali dell'Università di Modena e Reggio Emilia

Dall'Introduzione (pp. 7-11; 20-21; 30-31)

Le in-finibili traduzioni definitive
La formula “traduzione definitiva" suona oggi all’orecchio dei traduttori e degli studiosi come un ossimoro. Il discorso sulla traduzione come attività non-finibile, che non può arrivare cioè a compimento, sembra ormai parte integrante della disciplina: nessuna traduzione può pronunciare l’ultima parola perché il testo e la sua interpretazione sono in continua mutazione, come pure il canone, la lingua e le convenzioni che regolano l’opera di chi traduce. Malgrado le convinzioni di traduttori e studiosi, però, questa idea, assieme a quella affine secondo la quale le successive ritraduzioni di un testo ci consentirebbero di avvicinarci a una versione sempre più precisa e vicina al testo di partenza, continua avere cittadinanza nella vulgata sulla traduzione.
Per introdurre questo volume, nato da una serie di incontri tenuti all’Università di Trento nel 2021, ci sembra perciò interessante partire proprio da un testo non accademico, e in particolare da un romanzo, A Ghost in the Throat (2020), di Doireann Ní Ghríofa, che riflette in modo profondo sulla ritraduzione: quello che nel romanzo di Ní Ghríofa può inizialmente sembrare un approccio semplicistico è invece rivelatore di molte delle dinamiche che vogliamo mettere in luce in questo volume. La protagonista e narratrice di questo testo fra il saggio e l’autofiction mette subito a parte il lettore del rapporto particolare che ha con il Caoineadh Airt Uí Laoghaire (in inglese, Keen for Art O’Leary e, in italiano, Lamento per Art O’Leary), un poema scritto nell’Ottocento, in irlandese, dalla scrittrice Eibhlín Dubh Ní Chonaill, e già tradotto in inglese da alcuni fra i maggiori scrittori d’Irlanda. Il testo accompagna la vita della protagonista e proprio una sua traduzione chiude il volume. Eppure, nelle pagine iniziali del romanzo, al lettore erano state presentate le diverse vite che questo poema aveva avuto nelle letture della protagonista stessa, da quando da bambina lo trovava noioso , fino a quando da adolescente se ne innamora  e lo infarcisce inconsapevolmente di particolari romantici inventati, che le fruttano un brutto voto e un avvertimento, «non farti sviare dalla tua immaginazione!» , da parte di una professoressa. Una volta divenuta madre, la narratrice decide di tradurlo e il suo lavoro di traduzione è fatto di continue riletture del poema, che di volta in volta si presenta ai suoi occhi mutevole, come se l’originale non fosse uno, ma ve ne fossero molteplici. Lo rilegge di continuo, all’ossessiva ricerca di chiavi interpretative, e nella sua mente si intrecciano così diverse epoche, non solo letterarie ma anche personali. La sacralità romantica dell’originale, la sua presunta immutabilità è continuamente messa in discussione dalle ragioni della filologia, ma anche dall’inevitabile e incessante processo di mutazione del canone letterario. L’idea di tradurlo, realizzando una versione che sbaragli tutte le altre, risveglia le sue inquietudini di lettrice. Ma c’è altro. Anche dopo l’adolescenza, la protagonista mantiene un approccio al testo, per così dire, intuitivo ed empatico, ma anche una profonda necessità di rintracciare, nelle lettere private, nei documenti, nei luoghi di Eibhlín Dubh, la voce dell’autrice e del poema. A Ghost in the Throat sorprende il lettore interessato alle riflessioni sul tradurre perché riesce a mostrare quanto la lettura intuitiva, quella apparentemente diretta, non mediata, nella quale sono immersi i corpi dell’autrice e della traduttrice intradiegetiche, sia parte integrante della seria e filologica ricerca d’archivio: la protagonista ricerca il nome di Eibhlín nelle lettere e nei documenti della famiglia, un nome che pian piano sparisce, senza lasciar traccia neanche della sua data di morte, lasciando il posto alle vite dei fratelli e alle preoccupazioni più pratiche della vita militare e delle finanze. 

La traduzione plurale
Nel termine stesso “ritraduzione” c’è un riferimento implicito alle versioni precedenti, come se le nuove traduzioni rimandassero per forza di cose a quelle venute prima, più che al testo da tradurre. La ri- di ritraduzione sa di seconda mano, di ripassata, di stratificazione ulteriore che lascia intravedere la mano sottostante. Come se i nuovi traduttori si trovassero a sostituire le parole dei loro antenati, a coprirle con una vernice alle volte più chiara alle volte più scura. E invece, ciò che ci sembra emergere dalle pagine di questa raccolta è una necessità, più o meno avvertita, di dar vita a testi che si affiancano a quelli precedenti, che con loro comunicano, più o meno direttamente, ma che non li occultano, che non cercano di nasconderli. Le traduzioni non si cancellano vicendevolmente, ma arricchiscono il testo tradotto di rifrazioni, di interpretazioni possibili, lo attualizzano. Forse è per questo che alcuni traduttori e la maggior parte degli editori non amano il termine ritraduzione e preferiscono parlare di “nuova traduzione”. In questo senso sembra interessante ricordare le parole di Matthew Reynolds, che propone di “pluralizzare” l’idea di traduzione, e cioè di concepire la traduzione «not as fundamentally a single act involving one source-text in one language, and one translation-text in one another language, which just happens to occur again and again, but rather as paradigmatically generating multiple texts»: così la metafora più adatta alla traduzione non è il «canale», ma diventa il «prisma».
[…] Le diverse traduzioni interagiscono le une con le altre, ma al tempo stesso interagiscono con le norme sociali e culturali, con quelle linguistiche e con quelle traduttive delle diverse epoche, ma anche dei diversi gruppi di potere (culturale e politico) che costeggiano […]: sembra quasi che le diverse traduzioni di uno stesso testo, che pure cambia nella sempre mutevole percezione della comunità degli interpreti, rispondano più che le une alle altre, a un sistema di convenzioni che possono aver indirizzato la traduzione precedente, ma che più probabilmente sono presenti nella traduzione dei classici in una determinata epoca o all’interno di un gruppo dal quale chi traduce nuovamente vuole allontanarsi o presso il quale vuole accreditarsi. Si potrebbe perfino concludere che il classico è quel libro che non si traduce mai per la prima volta (non ce ne voglia Calvino), perché nel tradurlo si hanno ben presenti non solo le informazioni e le letture e le interpretazioni che lo accompagnano, ma anche un insieme di convenzioni relative al come si traducono i classici. La conversazione, come nei saggi che seguono, è tanto fra i libri, quanto fra gli autori e gli autori delle traduzioni, fra i mediatori, i critici, i lettori.

Una conversazione infinita
[…] Possono essere molte le ragioni per cui un classico viene ritradotto: perché cambiano le condizioni della ricezione, perché la pratica della traduzione e i suoi principi si modificano, perché cadono diverse forme di censura, perché il lavoro filologico permette di svelare elementi sconosciuti dell’originale, perché la lingua si trasforma nel tempo, e le sensibilità retoriche e stilistiche di chi la usa cambiano. Fra l’opera originale, i suoi traduttori e i nuovi lettori si instaura un dialogo infinito che racconta i cambiamenti della lingua, della cultura e della società, che aiuta a decifrare le strategie editoriali di un momento storico e che permette di posare un occhio attento sul farsi e disfarsi del canone letterario e sulla discreta ma fondamentale attività dei mediatori. Raccontare le vicende di una ritraduzione significa entrare nelle maglie della storia letteraria, analizzare in profondità gli aspetti linguistici, politici e culturali che la animano. Gli studi qui raccolti, che dalle ritraduzioni ottocentesche del Don Chisciotte arrivano alle ritraduzioni di Orwell negli anni ’20 del XXI secolo, passando per la ritraduzione della Bibbia in tedesco di Buber e Rosenzweig, le ritraduzioni novecentesche di Villon e le più recenti ritraduzioni italiane di Billy Budd di Melville, di Cent’anni di solitudine di García Márquez, e della Peste di Camus, mostrano quanto possa essere appassionante e utile osservare la letteratura attraverso le dinamiche della ritraduzione, e come il tempo che si sedimenta fra una versione e l’altra possa aggiungere consapevolezza, intensità al nostro sguardo.

[La traduzione di A Ghost in the Throat è di Claudia Durastanti]

Per gentile concessione di STEM Mucchi editore