Particolare della copertina del libro

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Principio Apocatastasi. La vita restituita come postulato di una filosofia morale

Francesco Ghia

9 febbraio 2024
Versione stampabile

Dall’originario significato astronomico, il termine “apocatastasi” passa a indicare, entro una visione ciclica della storia, la teoria per cui, alla fine dei tempi, tutte le creature saranno reintegrate nell’ordine armonico voluto da Dio al momento della creazione. Si accende così la speranza in una salvezza universale, che non cancella la tragicità e il peccato dell’esistenza individuale, ma la riabilita in un più ampio orizzonte di senso, nel giorno in cui Dio sarà «tutto in tutti». Dal mondo antico e tardo-antico (in particolare con Origene) ai pensatori del Novecento, tra religione, filosofia e letteratura, il volume ricerca le tracce dell’apocatastasi e i fondamenti che autorizzano a farne il cardine della filosofia morale. Di fronte all’attuale crisi ecologica e allo spettro della distruzione del pianeta, la questione dell’apocatastasi si fa ineludibile e si ripropongono gli interrogativi che questo principio, provocatoriamente, suscita: esistono colpe tanto gravi da meritare una pena eterna senza possibilità di redenzione? Può convertirsi all’amore, dopo la morte, chi in vita lo ha ostinatamente rifiutato? È ancora possibile riparare al male dopo eventi come la Shoah?

Francesco Ghia è professore presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell'Università di Trento 

Dall'introduzione (pp 15-48)

«Ma che cos’è questa apocatastasi?»: così, nell’incompiuto mediometraggio Simón del desierto (1964) di Luis Buñuel, chiede perplesso l’abate al confratello teologo, dopo che il monaco indemoniato aveva pronunciato, in sequenza, la triplice formula: «Muoia la sacra ipostasi, muoia l’anastasi, viva l’apocatastasi!». Alle prime due affermazioni sacrileghe i monaci avevano risposto, in coro: «Viva!»; alla terza: «Muoia!». Alla sua domanda, il priore riceve, in tutta risposta, una muta alzata di spalle… […] Come lemma, «apocatastasi» è una traslitterazione del greco apokatastasis, traducibile con «restituzione», ricostituzione» o «reintegrazione» ed è spesso correlato al concetto, affine, di palinghenesìa, ossia «rigenerazione» a partire dal lekton, l’elemento incorporeo originario. Esso rinvia a una struttura di filosofia della storia che prevede una armonica ricostituzione, identica fin nei minimi particolari (e per questo, nella costellazione del pensiero greco, affine a una cosmologia deterministica e ciclica) del mondo e della materia dopo la loro distruzione avvenuta per mezzo della ekpyrosis («conflagrazione») universale. […] Se il lemma apokatastasis, di probabile ascendenza orientale, segnatamente orfico-pitagorica, assume, nel contesto della filosofia stoica (ma, forse, prima ancora, in quella eraclitea) la valenza di un’armonica ricostituzione connessa, come detto, a una concezione ciclica del tempo e della storia – è peraltro probabile che il significato originario del termine derivi dal contesto astronomico, indicando il movimento per cui a intervalli regolari, per effetto della rotazione terrestre, le stelle tornano a essere visibili nella medesima posizione –, sue eco sono giunte fino alle moderne cosmologie evolutive della storia, inflettendosi nella fascinazione scientifico-poetica per le armonie universali [...]. In tal senso, apokatastasis diventa quasi sinonimo di oikeiōsis, l’appartenenza del singolo al tutto intesa come «conciliazione ultima» tra l’agire individuale e l’avverarsi della totalità. 

Dal punto di vista teologico, e segnatamente nel paradigma cristiano, occorrenze del termine apokatastasis (e anche di quello, affine, di palinghenesìa) si rinvengono in alcuni passi del Nuovo Testamento[...]. Né va dimenticato il passo forse più concettualmente decisivo (benché il lemma non compaia) per una prospettazione teologica della «apocatastasi»: 1Cor 15, 28, ove si legge che, alla fine dei tempi, le creature verranno rigenerate e restituite all’ordine perfetto di Dio, voluto all’inizio della creazione e turbato dal disordine del male e del peccato[…] 

 Posti dunque di fronte alla realtà eticamente ineludibile dell’universale dovere della corresponsabilità cosmica, della sollecitudine per la prossima o il prossimo, della solidarietà con lei o con lui, amica/o o nemica/o che sia, se una salvezza e una redenzione dal male irredimibile (almeno a parte hominis) del mondo hanno da essere pensate e postulate, con quale legittimità possono, questa salvezza e questa redenzione pensate e postulate, affermare con perentorietà inappellabile di voler escludere qualcuna o qualcuno, appellandosi a un retribuzionismo teologico in cui è a Dio, in ultima istanza, assegnato il compito di riuscire là dove la giustizia umana spesso, e inesorabilmente, fallisce?[...] Ma, benché la storia, per eterogenesi dei fini o List der Vernunft (due facce, invero, della stessa medaglia), spesso abbia mostrato e mostri «che si può vincere il nemico facendo il bene, anche se non lo si ama e se egli, con ciò, non diventa migliore», non c’è forse molta più forza eticamente e politicamente rivoluzionaria nel comandamento gesuanico dell’amore per i propri nemici e della preghiera per i propri persecutori, perché in ciò, nell’amore e non nell’odio, consiste la perfezione celeste?
 […]
 Può esistere, come già si chiedeva Gregorio di Nissa, una colpa tanto grave e infinita da meritare, al di là della vita terrena finita, una pena infinita, senza cioè più alcuna possibilità di riscatto? 
[…]
Ora, che l’idea dell’apocatastasi, o anche solo la sua ipotesi, teologicamente ed eticamente profilata, possa generare scandalo, è fuor di dubbio e financo psicologicamente comprensibile. 
[...] La profonda giustizia ontologica, che deve (nel senso del tedesco sollen) essere soddisfatta, non collide irrimediabilmente contro l’ipotesi dell’apocatastasi? 
[…]
 Aut giustizia, aut apocatastasi?
Bisogna, con ciò, rassegnarsi a dare il nostro assenso a Nietzsche? [...] Se prima ha avuto bisogno di un Dio, ora lo delizia un disordine cosmico senza Dio, un mondo del caso, in cui il terribile, l’ambiguo, il seducente appartiene all’essenza». 

Il male insensato, dunque, irrimediabilmente seduce? [...]

Non bisognerà, invece, dare ragione a Peter Berger che vede, nella teodicea, la realizzazione della funzione religiosa kat’exochēn, quella cioè di «assegnare “un posto” nello schema delle cose» a tutti gli elementi apparentemente e fenomenicamente privi di senso, agli eventi «disteleologici», così che, apocatastaticamente, la storia possa essere messa «al riparo dalla minaccia della disintegrazione caotica che è sempre implicita in tali eventi»? [...] No: l’apocatastasi non elimina il tragico dal corso storico dell’esistenza umana finita; solo cerca, come ogni teodicea che si converta in antropodicea, di inserirlo, spes contra spem, in un orizzonte di senso, in quell’universale che «vive nell’individuale che ne garantisce l’infinità, perché la logica dell'individualità richiede che l’esistenza individuale non possa cercare di realizzare se stessa senza ubbidire al bisogno d’infinito che reca in sé e di cui fa esemplare attestazione».  

Ma che fare di fronte al manifestarsi del male nella sua forma più insensata e perversa, più sadicamente divisiva, più, letteralmente, «diabolica»? Che fare con i perversi dittatori della storia? Che fare con Hitler? Davvero anche Hitler, persino Hitler, può essere salvato? Anche per lui, anzi proprio per lui, e per tutti gli Hitler della storia umana, si deve, ovvero è lecito (darf) sperare nella salvezza eterna? Sperare che, posti di fronte al dolore tremendo provocato dalle loro colpe, anche gli Hitler della storia abbiano infine abbozzato una implorazione di perdono e clemenza, e che questa implorazione abbia trovato accoglienza? Kantianamente: che cosa è lecito sperare? E, qualora fosse lecito sperare in una redenzione finale concessa universalisticamente a tutti, anche al peggiore degli uomini, non verrebbe con ciò meno la funzione di deterrenza che, tradizionalmente e giuridicamente, a ogni pena è stata assegnata, ivi compresa (e a maggior ragione) la pena ultraterrena? Ma, ancora una volta, ci chiediamo: è moralmente e teologicamente lecito, ed è davvero un’idea degna dell’uomo e degna di Dio (se un Dio ha da essere pensato), delegare a Dio, nelle vesti di supremo giudice ultraterreno, la correzione di quanto la giustizia umano-terrena non è in grado di compiere? Come la teodicea invera autenticamente la propria essenza, altrimenti destinata, kantianamente, al fallimento filosofico se, e solo se, si converte in antropodicea, non si dovrà dire qualcosa di analogo per la teologia e filosofia della redenzione? Fondamento e prospettiva di una teologia della misericordia non è forse, in primis, la plausibilità di un’etica (umana) della misericordia elevata a «criterio» o della compassione assunta come «programma universale»?

Ma è ancora possibile pensare l’antropodicea dopo che il male si è manifestato nella sua più scabra, brutale, impensata, disumana irreparabilità apparente? È ancora possibile una riparazione del male dopo la Shoah? Probabilmente, nessuno più di Emil Ludwig Fackenheim, ebreo tedesco, rabbino filosofo, sopravvissuto allo sterminio nazista degli ebrei emigrando in Canada, ha posto con maggiore e lancinante radicalità la domanda sul tiqqun, sull’ emendazione, la correzione, l’aggiustamento, la riparazione, il perfezionamento e la redenzione di un mondo lacerato e spezzato dal male più radicale.  

Domande terribili, abissali…

Per gentile concessione della Casa editrice Morcelliana