Immagine tratta dalla copertina del libro

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DROGHE ILLEGALI. PERCORSI E RIFLESSIONI FRA CURA E PREVENZIONE

di Bruno Bertelli e Raffaele Lovaste

6 aprile 2016
Versione stampabile

Bruno Bertelli insegna Sociologia della devianza presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale dell'Università di Trento.

Raffaele Lovaste, fino ad ottobre 2015 direttore Ser.T. Trento, Rovereto e Riva del Garda, attualmente è presidente del Centro studi e ricerche consumi e dipendenze del ce.R.co di Milano.

Il fenomeno dell'uso problematico di sostanze psicotrope e stupefacenti ha dimensioni globali. Se, da un lato, ogni grande area geografica tende a presentare specifiche connotazioni date dalla rilevanza che assumono i diversi tipi di droga che vengono consumati, dall'altro la globalizzazione tende sempre più ad espandere e ad omogeneizzare i consumi. Con questa attenzione e consapevolezza l'uso, l'uso problematico e la dipendenza da droghe sono qui analizzati nelle dimensioni registrate nel territorio trentino, dopo aver rilevato che in tale contesto si presentano con caratteristiche e proporzioni pressoché analoghe all'intero territorio nazionale. 

Dall'introduzione:

Questo volume inaugura la Collana “Comportamenti sociali problematici e dintorni” e nasce dall’esigenza di creare un rapporto più stretto tra formazione e realtà sociale e territoriale circostante e porre lo studente, l’operatore e il lettore-cittadino, nella condizione di sentirsi maggiormente consapevole rispetto a problematiche che attraversano, talora in modo occasionale, altre volte più direttamente, la nostra vita quotidiana.
La letteratura scientifica e divulgativa è piena di libri e saggi sulle droghe; forse qualcuno può obiettare che non c’era bisogno di inflazionare ulteriormente il campo. Un pensiero in tal senso ha attraversato anche le nostre menti ma poi ciò che ci ha convinto di andare nella direzione che vedete è il rapporto con la realtà, la relazione con gli studenti, la loro necessità di acquisire chiavi di lettura, di analisi, di comprensione. A dispetto delle tante forme di comunicazione e d’informazione che oggi ci circondano, e che apparentemente sembrerebbero essere fautrici di ricchezza e chiarezza conoscitiva, si percepisce, in buona parte dei giovani, una sorta di “disorientamento”, se non di confusione, di fronte a un fenomeno che li circonda e di cui, almeno indirettamente, sono parte. Le aule universitarie piene, e gli interventi interessati e accorati, fatti in pubblico e “privatamente” (via email) quando si tratta del fenomeno droga e delle sue implicazioni individuali, sociali e politiche, sono precisi indicatori che ci spingono a stare ancora sul tema, a fornire piste d’analisi e d’interpretazione, a ragionare su opzioni politiche ed operative.   
Questo libro privilegia il punto di osservazione di chi opera nei servizi per le dipendenze: una scelta per dar voce a riflessioni e metodologie legate all’esperienza di un lavoro quotidiano con il tossicodipendente. Il Ser.D del Trentino deve fronteggiare un fenomeno che, come evidenziato nelle pagine del libro, ha caratteristiche e proporzioni analoghe a quanto si manifesta nell’intero contesto nazionale.     
Si è ben consapevoli che le risposte sociali alla droga e alla dipendenza non possono essere ristrette a chi opera nei Ser.D. e che comunità terapeutiche, cooperative di lavoro e associazioni di genitori, di volontari e di auto mutuo aiuto, sono risorse importanti e indispensabili in un sistema integrato di prevenzione, cura e riabilitazione delle dipendenze. È proprio “il fare sistema”, “il costruire e far funzionare una rete efficiente di servizi” ciò che pensiamo sia oggi necessario per fornire risposte adeguate a un fenomeno che, lungi dall’essere arginato e risolto, richiede azioni coordinate ed efficaci. Il Ser.D., in questa logica, ha un ruolo centrale e tanto più il Ser.D. di Trento che da alcuni anni opera cercando di mettere in rete servizi ed attori e di ancorare gli interventi a criteri e metodologie di efficacia terapeutica e preventiva.  
I saggi che compongono il volume riflettono stili e linguaggi diversi che sono il portato delle sensibilità e competenze di ciascun autore. Ciò che li accomuna è l’unità d’intenti nel cercare di far comprendere alcune rilevanti coordinate del fenomeno droga dalla prospettiva di chi si preoccupa di curare una malattia (la dipendenza), di prevenirne l’insorgere e di sensibilizzare le giovani generazioni sui risvolti sociali, sui significati e sulle conseguenze che il consumo di sostanze stupefacenti e psicotrope tende a manifestare nell’attuale società.      
Il titolo del libro evidenzia un’attenzione mirata sulle droghe illegali, essenzialmente per sottolineare una focalizzazione che lascia ai margini, pur senza ignorarle, alcol, tabacco e psicofarmaci, così come le forme di addiction  comportamentali compulsive (disturbi alimentari, gioco d’azzardo, sesso, shopping, lavoro…). Vi è, tuttavia piena consapevolezza che il confine fra legale e illegale quando si parla di sostanze psicotrope e stupefacenti è molto labile e soprattutto, a livello empirico, la commistione fra sostanze lecite e illecite è molto frequente e pone questioni sotto il profilo terapeutico e preventivo che hanno un comune e ampio terreno d’azione. Le dimensioni sociali e culturali intrinsecamente connesse con l’offerta e la domanda di droga sono molteplici, qui ne vengono sottolineate alcune che si legano alla dinamica del cambiamento sociale.

In questi ultimi anni è in corso una nuova trasformazione: le persone che prendono contatto con le agenzie della rete d’assistenza per la cura e la riabilitazione hanno, nella maggioranza dei casi, un lavoro, un buon livello d’istruzione e sono sufficientemente integrate nel contesto sociale. Il tossicodipendente emarginato, “da strada” com’eravamo abituati a vedere negli anni 80, è quasi scomparso. Questo nuovo utente è meno visibile da un punto di vista sociale, non muore di overdose, crea meno allarme, utilizza più sostanze contemporaneamente cercando di controllarne gli effetti farmacologici incrociati e aspira a un uso compatibile con la vita sociale e lavorativa. 
Il nostro tempo accredita sempre più il culto del godimento immediato, illimitato, assoluto e privo di argini. Non è possibile aspettare neanche un secondo per la condivisione, ad esempio, di un’informazione o di un sentimento; tutto, subito, senza limiti e a tutti. Basti pensare ad alcuni spot pubblicitari impostati appunto sul “senza limiti”, ai social network, ai telefoni cellulari o ai messaggi tramite whatsapp che sembrano permettere la realizzazione di queste pulsioni. Lo scopo della giornata sembra essere per molte persone un godimento senza causa; un godimento che gode solo della sua crescita e del suo infinito potenziamento e che tende a consumare, in solitudine, anche chi lo consuma. Il desiderio insaziabile genera schiavitù. Addictus, dipendente, è lo schiavo che non può fare a meno del suo oggetto del desiderio, sostanza o comportamento che sia. La dipendenza è allora solitudine. La persona è sola davanti a una macchinetta mangia soldi mentre preme, con un volto spento, ripetutamente i bottoni; è sola davanti al monitor di un computer mentre intrattiene rapporti virtuali con persone che non conoscerà mai, è sola mentre sniffa le droghe (Cipolla, 2007).

Questa nuova rappresentazione ci fornisce un uomo che si muove non per passioni, ideali od obiettivi di realizzazione personale nella società, bensì sotto la spinta compulsiva del godimento immediato. Ciascuno rivendica il proprio diritto alla felicità come diritto di godere senza intrusioni di sorta da parte dell’altro. Si tratta di una nuova ideologia dove ciò che conta è l’io e dove la relazione con alter è ridotta a dimensione strumentale.
L’homo felix ipermoderno, iperedonistico, si sente libero da ogni dovere che precede il diritto, e liquida il problema della responsabilità come un problema antiquato (Recalcati, 2013). Ciò che conta è fare quello che si vuole senza assumere le conseguenze dei propri atti. Ma ben sappiamo che la libertà senza responsabilità (senza il render conto) conduce alla deriva del degrado, dell’isolamento, della schiavitù.  
Quando questa ideologia senza ideologia, normalmente espressa da una generazione di adolescenti  protratti anche al di fuori dell’età anagrafica, è assunta come propria anche dagli adulti con funzione genitoriale la situazione si complica. Se un genitore assume la “felicità spensierata” dei figli come parametro della sua vita, rinuncia automaticamente al ruolo educativo e alla trasmissione  dell’impegno soggettivo che lo sostiene. Se il compito che si assume il genitore è quello di escludere dall’esperienza dei propri figli l’incontro con l’ostacolo, con l’ingiustizia, se la sua preoccupazione è come spianare il terreno da ogni difficoltà per evitare l’incontro con il reale finirà inevitabilmente per allevare un figlio-narciso (Recalcati, 2013).  
La trasmissione del desiderio e dell’impegno individuale da una generazione all’altra resta il compito educativo prioritario dell’adulto e rappresenta la prevenzione più forte nei confronti della tendenza a disperdersi nel godimento immediato e senza limiti. 
La linea di separazione allora fra lo sperimentare una sostanza (droga) o un comportamento edonistico e la caduta nella ripetizione compulsiva o nell’uso continuato e frequente (abuso) della sostanza, è condizionata sia dal tempo di esposizione (alla droga) sia dalla struttura genetica e di personalità del singolo, sia dalla storia e dalle relazioni che il soggetto ha e vive. Più una persona è predisposta più è facile diventare dipendenti in un tempo ristretto. La differenza che alcuni fanno fra droghe leggere e droghe pesanti, veicolando l’implicito messaggio che quelle leggere sono meno pericolose o addirittura non sono pericolose, è puramente artificiosa perché l’effetto è dato dall’interazione di tre variabili: situazione, droga e persona e quello che succede lo possiamo vedere solo a posteriori (Bignamini, 2014).   
Quello che per ora si può fare, ed è già molto se ci si riesce, è indurre nei professionisti, nei politici che istituzionalmente se ne occupano, e nella popolazione in generale, la consapevolezza che la prevenzione come la conosciamo e l’abbiamo praticata, non basta più. I valori positivi una società non li può “proporre” come  propone un programma politico, ma  li produce con l’esempio che una generazione riesce a trasmettere alla successiva. La prevenzione primaria allora è assunzione, prima di tutto in noi stessi, del senso di responsabilità e del senso della misura. C’è una misura nelle cose, vi sono precisi confini, oltre i quali e prima dei quali non può sussistere il giusto ( Orazio, poeta latino 65 – 8 A.C.).

Per gentile concessione di Artimedia Valentina Trentini Libri.