Cloves © UniTrento ph. Federico Nardelli

Innovazione

Cloves. Il passaparola si fa wireless

Banda ultralarga, bassi consumi, accesso pubblico: l’infrastruttura unica al mondo del Disi, utile per comunicare e localizzare

24 luglio 2023
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Paola Siano
Ufficio Stampa e Relazioni esterne

Si chiama Cloves (Communication and Localization Testbed for Validation of Embedded Systems) ed è un’infrastruttura sperimentale a supporto della ricerca e della didattica su reti e localizzazione wireless a bassa potenza. Unica al mondo, perché di infrastrutture pubbliche così grandi per questo tipo di tecnologie non ne esistono altre, come sottolinea il referente scientifico del progetto, Gian Pietro Picco, professore del Dipartimento di Ingegneria e Scienza dell’Informazione.

Camminando per i corridoi del Disi e alzando lo sguardo, si possono notare attaccate al soffitto delle scatolette (nodi) che nascondono al loro interno microchip, sensori e minuscoli computer in grado di comunicare tra loro. Ce ne sono 130 in tutto, non solo al Disi ma distribuite in tre aree diverse negli edifici universitari di Povo, su un’area di quasi 8000mq. La scatola grigia contiene due dispositivi radio. Uno, più “tradizionale” (IEEE 802.15.4) supporta la sola comunicazione, ad esempio per applicazioni di reti di sensori wireless e controllo industriale. L’altra radio, ultra-wideband (banda ultralarga), oltre alla comunicazione consente di stimare la distanza fra dispositivi con accuratezza inferiore al decimetro e quindi può essere usata per la localizzazione. La scatoletta piccola, con una luce rossa accesa, è invece un piccolo PC embedded (Raspberry PI) che, attraverso quattro porte USB, gestisce i due dispositivi cui possono essere aggiunti altri tipi di radio a bassa potenza. Cloves è infatti parte dell’IoT Testbed, un progetto più ampio del Disi che persegue lo studio e la sperimentazione di tecnologie radio e dispositivi per l’Internet of Things.

Tecnicismi a parte, questa è un’infrastruttura innovativa dalle grandi potenzialità. Il perché ce lo spiega proprio il professor Picco.  «È un sistema che serve a sperimentare e validare in un ambiente reale soluzioni innovative di ricerca ma anche sistemi che poi vengono messi in campo. Le applicazioni di queste due tecnologie radio sono tantissime, dalla sicurezza nei cantieri, al controllo industriale, alla coordinazione di robot e droni, alla logistica, fino ad arrivare all’analisi sociologica delle relazioni umane. Ad esempio, abbiamo sviluppato protocolli di rete ad hoc per algoritmi innovativi di controllo i cui vantaggi finora erano stati mostrati solo dal punto di vista teorico. Inoltre, i sistemi di localizzazione da noi sviluppati nel testbed vengono ora utilizzati in un’area del Muse, grazie a specifici badge ultra-wideband indossabili, per il tracciamento su base volontaria dei visitatori e delle visitatrici e capire in questo modo quali sono le installazioni che attirano di più l’attenzione, oppure qual è il percorso che il pubblico segue all’interno dell’edificio. Il tutto in maniera totalmente anonima».

Ma da dove si è partiti per questo progetto?

«Il mio gruppo si occupa da quasi due decenni di queste tematiche. Inizialmente l’enfasi era sulle reti di sensori wireless, la cui idea è di non avere un unico sensore, molto preciso ma più costoso e con un unico punto di misura, ma di averne tanti, piccoli, poco costosi e un po’ meno precisi ma con la possibilità di avere tantissimi punti di misura su un’area molto più ampia. La sfida è fare in modo che, attraverso una sorta di passaparola, le informazioni che viaggiano da un sensore all’altro siano affidabili e arrivino in tempo utile al ricevitore, mantenendo un basso consumo energetico. Infatti, essendo senza cavi, i dispositivi sono alimentati a batteria o con altre sorgenti autonome.
Da lì i nostri interessi si sono poi focalizzati su ultra-wideband e quindi applicazioni dove la prossimità o la localizzazione assumono un ruolo centrale. Tuttavia, la comunicazione o localizzazione wireless è molto flessibile ma anche sensibile a ostacoli e altri fattori ambientali. Ecco perché l’uso di simulatori non è sufficiente a verificare la bontà delle soluzioni adottate ed è invece necessaria un’infrastruttura sperimentale con dispositivi veri installati in un ambiente reale».

Il passaggio dal simulatore alla pratica reale non è stato però immediato, né semplice. Il primo nucleo del testbed, con una dozzina di nodi, è stato installato nel 2018 grazie ad una collaborazione con Thales Alenia Space, azienda che si occupa di sistemi spaziali. Successivamente, grazie a fondi Miur, in particolare “Dipartimento di Eccellenza” ottenuti dal Disi e un Progetto di Ricerca di Interesse Nazionale (Prin) coordinato dal professor Picco, il testbed è stato esteso prima a 80 nodi e poi agli attuali 130, grazie al lavoro dell’ingegner Davide Molteni, il tecnico Disi che gestisce l’intera infrastruttura hardware e software del testbed. 

Un vantaggio chiave per gli utenti è che questi si possono collegare da remoto per riprogrammare i nodi, controllare esperimenti, raccogliere dati. Il testbed è utilizzato da altri ricercatori Disi oltre che all’interno dei corsi di laurea magistrale e per tesi di laurea e dottorato. Tuttavia, da un anno il testbed è stato reso pubblico e accessibile a tutto il mondo; oggi ci sono ricercatori che attraverso un account eseguono i propri esperimenti collegandosi da Cina, Corea del Sud, Stati Uniti, Svizzera, Germania. Avere questa infrastruttura a disposizione è evidentemente un vantaggio importante per la ricerca, come testimoniato dai due best paper award ricevuti alle conferenze IPIN 2019 e IPSN 2023 i cui risultati sperimentali sono stati ottenuti proprio in Cloves.