Il ghiacciaio del Careser fotografato nel 2014

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L'agonia dei ghiacciai

La loro scomparsa, per gli esperti, è inevitabile. UniTrento impegnata in azioni di monitoraggio e studi per la sostenibilità

6 settembre 2023
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Paola Siano
Ufficio Stampa e Relazioni esterne

Gli studiosi non hanno dubbi: il destino dei ghiacciai alpini è segnato. Complici l’innalzamento delle temperature e l’emissione di gas serra, queste enormi distese gelate nei prossimi decenni spariranno. Questa estate in Trentino, osservata speciale la Marmolada (3.300 m s.l.m. ndr), al centro di controlli e rilievi per verificare la struttura del manto ghiacciato. Attività alle quali ha partecipato un team di ricercatori del Disi guidato da Lorenzo Bruzzone. Ma anche il Càreser (3.279 m s.l.m. ndr), è in forte sofferenza, così come il Mandrone (3.530 m s.l.m. ndr). Lo confermano i dati che snocciola Alberto Bellin, docente al Dicam, che abbiamo intervistato insieme a Lorenzo Giovannini, anche lui professore nello stesso Dipartimento, entrambi esperti di cambiamenti climatici.

«Dallo studio fatto con il professor Carlo Baroni nell’ambito dell’inchiesta sul crollo della Marmolada dello scorso anno – spiega Bellin, che fa anche parte del team di esperti nominato dalla Procura e che ha redatto la perizia tecnica sul distacco - è emerso che verso la metà dell’ottocento, alla fine della piccola età glaciale, il ghiacciaio principale della Marmolada aveva un’estensione stimata di 4 km2. Oggi questa è pari a 0.97 km2, si è perso cioè oltre il 75% di superficie. Anche il volume è diminuito, del 70%. Ciò ha comportato un cambiamento nella struttura stessa del ghiacciaio, che oggi non è più un corpo unico ma è frammentato. Fattore che incide sul rischio di distacchi. Il Càreser invece - prosegue il docente - è ancora più sfortunato, perché esposto a sud. Secondo una previsione fatta tenendo conto dei modelli climatici, la nostra stima è che non vada oltre il 2040. Nel 2007 con un gruppo di lavoro abbiamo mappato il fondo roccioso e stimato i volumi, e anche questo ghiacciaio risulta essere in forte recessione. Negli anni Trenta la sua estensione era pari a cinque chilometri quadrati, adesso è poco più di un chilometro quadrato. Anche per quanto riguarda il Mandrone infine, durante un sopralluogo effettuato nel mese di luglio si è notato che il ghiacciaio si sta ritirando, anche se un po’ meno perché si trova ad una quota più elevata degli altri due».

A fronte di questa situazione, aumenta il rischio di distacchi? 

«C’è un generale aumento – ammette Bellin – anche se i crolli ci sono sempre stati. E i motivi sono diversi tra loro. In passato ci sono anche stati cedimenti paradossalmente per abbondanza di accumulo. Oggi invece si verificano principalmente a causa di forti ablazioni. E i meccanismi possono cambiare per effetto dell’accelerazione dei cambiamenti climatici ormai sotto gli occhi di tutti. Il crollo che è avvenuto l’estate scorsa sulla Marmolada è dovuto all’effetto combinato della diminuzione della resistenza d’attrito fra il ghiaccio e la roccia sottostante, a causa dell’abbondante presenza d’acqua di scioglimento, e della riduzione della resistenza intrinseca del ghiaccio, quest’ultima causata all’aumento della temperatura del corpo glaciale indotta dal persistente aumento della temperatura dell’aria. Mentre si può dire che la forte ablazione e le temperature elevate dell’aria aumentano il rischio di crolli, allo stato attuale non è possibile effettuare previsioni a breve termine sulla base di segnali premonitori proprio perché i meccanismi di innesco sono interni alla massa glaciale e spesso, come nel caso della Marmolada, «non si notano segnali di avvertimento visibili dall’esterno».

I teli termici utilizzati sul Presena possono essere uno strumento valido anche per questi tre ghiacciai? 

«No. I teli rallentano la fusione della porzione coperta ma non rappresentano una soluzione sostenibile. Il ghiacciaio Presena è poi particolare, essendo fortemente antropizzato (si può raggiungere comodamente utilizzando la funivia) e i teli servono principalmente a sostenere l’attività sciistica e turistica in generale. E poi, non si possono coprire con teli tutti i ghiacciai».

Ma come e perché avviene la fusione dei ghiacciai?

«Il motivo è il progressivo aumento delle temperature», spiega Giovannini. «Abbiamo effettuato diverse analisi di serie storiche che mettono in evidenza come, soprattutto negli ultimi decenni, ci sia stata un’accelerazione importante del rialzo termico, che in Trentino, come su tutto l’arco alpino, è più marcato rispetto alla media globale. L’aumento delle temperature è direttamente collegato alla fusione dei ghiacciai, che non sono più in equilibrio rispetto al clima di qualche decennio fa. Il loro stato di salute è determinato dall’equilibrio tra gli apporti nevosi, cioè la neve che nel corso degli anni si trasforma in ghiaccio, e la fusione che si verifica in estate. Il ghiacciaio è come un tesoretto che abbiamo in quota, ma che, se gli apporti sono minori della fusione, prima o poi si esaurirà».

I ghiacciai scompariranno?

«Il destino di molti è ormai segnato», risponde perentorio il docente. «Certo non tutti i ghiacciai alpini scompariranno, e i tempi saranno diversi. Ad esempio, i ghiacciai a quote più elevate avranno vita più lunga. Ma la maggior parte dei ghiacciai del Trentino nei prossimi decenni non ci sarà più».

Quali saranno le conseguenze?

«Una criticità importante riguarderà la disponibilità della risorsa idrica nel periodo estivo. Questo è un problema perché l’estate è la stagione in cui c’è più bisogno di acqua per diversi usi, da quello agricolo a quello turistico e per la produzione di energia idroelettrica».

Non c’è più tempo per intervenire?

«Il tempo sta per scadere. Ci sono diversi scenari futuri a seconda di come saranno le emissioni di gas serra, basse, moderate o elevate. Purtroppo oggi le emissioni di gas serra non stanno diminuendo a livello globale, anche se negli ultimi anni si sta intravedendo un rallentamento della loro crescita. Di certo dobbiamo fare di più, una riduzione delle emissioni è necessaria al più presto per contenere l’aumento globale delle temperature».