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Ricerca

Il teatro diventa ricerca

Le arti performative come oggetto di ricerca per comprendere dinamiche sociali. Ne parliamo con la sociologa Chiara Bassetti

13 novembre 2023
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Paola Siano
Ufficio Stampa e Relazioni esterne

Della vita quotidiana come rappresentazione parlava già Erving Goffman nel 1959. Il sociologo usa la metafora del teatro per indagare l'azione sociale. La rappresentazione teatrale come processo che riflette i mutamenti sociali dei contesti in cui si manifesta, d'altra parte, è oggetto di studio della sociologia da tempo e, ancora prima, alla fine del 1800, la dimensione rituale della performance è stata analizzata da Émile Durkheim. Partiamo da qui per spiegare in che modo il teatro può essere oggi terreno di indagine per studiare l’innovazione culturale e, più in generale, i fenomeni sociali. Domanda che rivolgiamo a Chiara Bassetti, docente del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale.

«Esistono almeno due dimensioni. La prima consiste nello studio diretto della rappresentazione performativa. Si utilizzano metodi qualitativi per osservare e studiare quello che succede durante la costruzione dell’opera d’arte teatrale. La seconda riguarda la diffusione dei risultati della ricerca. In termini di studio della produzione culturale dell’innovazione, il teatro è da sempre considerato in termini sociologici un sito importante, a partire dal lavoro fondativo di Goffman. Da un lato c’è la dimensione della rappresentazione della vita sociale che ha luogo a teatro e che instaura un rapporto biunivoco tra teatro e società. Il teatro la rappresenta ma dall’altra parte il pubblico fruisce la rappresentazione - si guarda, in un certo senso. Da un altro lato il teatro può essere un luogo strategico, insieme ad altre arti performative, per studiare fenomeni sociali più ampi. Ad esempio il ruolo delle emozioni che vengono rappresentate in scena, oppure quello del ritmo e della corporeità nell’interazione sociale, in particolare attraverso la comunicazione non verbale. Questa ha un ruolo importante a teatro, sappiamo che lo è anche nella nostra vita quotidiana ma spesso ci si focalizza sulla comunicazione verbale. Il teatro consente di accedere a quella dimensione non concettuale che caratterizza anche la vita sociale ma che è una delle più difficili da raggiungere con metodi di ricerca».

Nella sua attività didattica ha svolto un lungo lavoro con gli studenti e le studentesse, anche attraverso dei seminari. Cosa è emerso?

«Il tema del teatro e delle arti performative è uno dei miei interessi di ricerca. Quando insegno metodi qualitativi per la laurea magistrale internazionale in Sociology and social Research i frequentanti lavorano in piccoli gruppi su progetti di ricerca. Devono sviluppare una domanda di ricerca specifica all'interno di un tema più ampio. Uno dei macro-temi è quello appunto della produzione culturale, delle arti e della performance. Tre anni fa, nell’anno academico 2021-2022, uno dei gruppi ha iniziato ad interessarsi di rappresentazioni teatrali. Ha cercato contatti per poter svolgere la ricerca sul territorio. Da qui, grazie in particolare a Laura Pauletto, una delle studentesse del gruppo, è nata la collaborazione con la compagnia Aria Teatro, con il quale oggi il dipartimento ha una convenzione. I soggetti della ricerca, i protagonisti del mondo teatrale, sono rimasti molto colpiti da questa opportunità di incontro con il mondo della ricerca. Quindi dall’anno successivo abbiamo strutturato maggiormente questo percorso per uno scambio più sistematizzato».

In che modo le arti performative possono essere strumento di disseminazione?

«Io non l’ho mai fatto ma conosco esperienze di altri. Si possono utilizzare le arti performative per restituire risultati alle comunità o rappresentare determinate situazioni. Ci sono anche forme specifiche di teatro che vanno in questo senso. Penso al Teatro dell’Oppresso, un metodo che usa il linguaggio dello spettacolo come mezzo di conoscenza e di trasformazione della realtà personale, relazionale e collettiva. Con questo approccio mi sono interfacciata nella supervisione di una tesi e poi all'interno del master Saperi in Transizione».

Cosa si intende per metodi creativi e performativi nell’ambito della ricerca sociale?

«Si fa ricerca con il corpo e lo spazio. Si coinvolgono le persone nella loro totalità, inclusa la loro corporeità, la loro emotività. Al posto di fare un’intervista o un focus group su alcuni temi, si organizzano delle attività performative, che possono avere come esito finale una rappresentazione teatrale fatta da principianti della comunità e da professionisti del teatro. Si possono usare diverse tecniche del mondo artistico per stimolare la riflessione e il dialogo. Non solo un gruppo di discussione quindi, ma un gruppo di esplorazione.
In questo contesto possiamo parlare di una terza dimensione dell’arte performativa per la ricerca e l'innovazione: coinvolgere e attivare direttamente la cittadinanza in questioni di interesse comune. Un’esperienza di questo tipo è stata fatta nel 2018 al Santarcangelo Festival, dove in collaborazione con un gruppo di ricercatori, artisti e cittadini, abbiamo fatto un esperimento di costruzione di comunità. Abbiamo organizzato una performance che si accompagnava ad una moneta digitale complementare e che voleva portare l’attenzione dei passanti su questioni legate al mondo della finanza. Abbiamo coinvolto 30 artigiani e artigiane del posto e nei giorni del festival abbiamo lavorato insieme per raggiungere il resto della comunità locale».

Ma quali sono le competenze della sociologia applicate al teatro e al mondo delle arti performative?

«Lo sguardo sociologico ha la capacità di analizzare l’interazione sociale a tutti i livelli, verbale e non, nel processo performativo, e la performance, come dicevamo, caratterizza tanto il teatro quanto la vita quotidiana».