Giovani che manifestano contro il cambiamento climatico. Foto Adobe Stock

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Quando il climate change fa paura

Sempre più persone, soprattutto giovani, sperimentano l’“ecoansia”, un profondo disagio collegato ai cambiamenti climatici

20 novembre 2023
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di Lorenzo Perin
Studente collaboratore Ufficio stampa e relazioni esterne

Che sia una patologia da inserire a pieno titolo tra i disturbi mentali, oppure che rimanga – in modo più generico ma non per questo meno allarmante – una semplice preoccupazione per il cambiamento climatico, l’ecoansia sta diventando una condizione sperimentata da sempre più persone, in particolare giovani. Ne abbiamo parlato con Anna Castiglione, dottoranda del Dipsco, impegnata in un progetto di ricerca incentrato sull’azione climatica.

Enumerare le legittime ragioni d’ansia legate al cambiamento climatico - con relativi dati e argomentazioni - richiederebbe una collana di libri dedicata. Alcune ricerche, infatti, non considerano l’ecoansia un disturbo, ma una semplice risposta razionale a un problema effettivo. Un problema verso cui è facile percepire, di primo acchito, un profondo senso d’impotenza.
Ma questa non è la risposta giusta: Anna Castiglione, dottoranda al Dipartimento di Psicologia e Scienze cognitive, ci spiega cos’è l’ecoansia e ci racconta come sia possibile affrontare il problema a partire da sé stessi, per arrivare al mondo.

Innanzitutto, cosa intendiamo con ecoansia? È un vero e proprio disturbo dello spettro ansioso o semplice preoccupazione per l’ambiente?

«Potremmo definire l’ecoansia come una risposta psicologica a un problema ambientale, intendendo “ambiente” nel duplice significato di contesto in cui viviamo e di ecosistema. Come tutti i fenomeni psicologici e psicosociali più recenti, non c’è ancora una definizione univoca del termine e il dibattito è acceso. Ad oggi l’ecoansia non è formalmente riconosciuta come una patologia, per quanto sia attestato che per alcune persone la preoccupazione climatica è tale da ostacolare il regolare svolgimento delle attività quotidiane.
Non essendo l’ambito clinico di mia competenza - io sono ricercatrice in psicologia ambientale, un ramo della psicologia sociale - non mi esprimo in merito. Quel che posso dire, da individuo che in prima persona ha provato ecoansia, è che la presa di coscienza “reale” del problema del cambiamento climatico è qualcosa che ti atterrisce».

Come è emerso il concetto di ecoansia e quali persone riguarda maggiormente?

«L'ecoansia è emerse a partire dagli anni '70, con l'aumento della consapevolezza ambientale. Susan Clayton, che potremmo considerare la decana del settore, ha sviluppato nel 2020 una scala per misurare il fenomeno. Tuttavia, quantificare l'ecoansia e dare quindi una distribuzione demografica del problema è ancora difficile.
Quello che possiamo dire con certezza è che sono le fasce più giovani della popolazione a esserne maggiormente colpite: Greta Thunberg non è solo l’attivista più famosa su temi ambientali, ma anche un ottimo identikit della persona media che soffre di ecoansia. Inoltre, anche chi ha subito sulla propria pelle le conseguenze di un disastro ambientale dovuto al cambiamento climatico è più probabile sviluppi ecoansia».

Come si reagisce all’ecoansia?

«Come per altri fenomeni psicologici, ci sono modi funzionali e disfunzionali di affrontare il problema. Se affrontata positivamente, l’ecoansia può fornire una grandissima leva comportamentale all’azione per il cambiamento. Una cosa che ho notato è che a livello mediatico c’è grande disfattismo nel parlare di cambiamento climatico: si citano sempre dati negativi, disastri naturali, istituzioni che non agiscono...
Per quanto sia ovviamente importante prender coscienza della gravità del problema, un’educazione alla sensibilità ecologica deve passare anche per l’empowerment delle persone: io devo sentire di poter cambiare le cose. Accanto all’informazione, ci dev’essere l’azione. Oggi posso smettere di usare la macchina per recarmi al lavoro, domani posso entrare a far parte di un’associazione cittadina per le questioni ambientali, dopodomani posso - anzi, possiamo - far firmare al sindaco un’ordinanza per rendere a traffico limitato ampie zone della città».

Questo è il motivo per cui hai deciso di impegnarti su questi temi?

«Quando ho cominciato a soffrire di ecoansia, nel momento in cui mi sono resa conto della portata del problema e dell’inerzia delle istituzioni, mi sono sentita inizialmente scoraggiata e demotivata. Solo dopo, entrando in contatto con i circoli di attivisti, ho iniziato a capire che non solo si poteva, ma anzi si doveva fare qualcosa. Sono ripartita dai miei studi, intraprendendo un percorso che mi permettesse di approfondire questi temi. Attualmente sto lavorando a un progetto d’attivazione psicologica che mira a stimolare le persone ad avere fiducia in sé stesse per entrare in uno spazio civico collettivo e migliorare i propri comportamenti individuali. Un vero impatto lo si può ottenere solo agendo insieme».