Barbie esposte in un negozio di giocattoli. Foto Adobe Stock

Storie

Barbie, un mondo in rosa contro gli stereotipi

Barbara Poggio, prorettrice alle politiche di equità e diversità dell’Università di Trento, commenta il film di Greta Gerwig

5 settembre 2023
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di Daniele Santuliana
Ufficio Stampa e Relazioni esterne

Un film, ma anche un fenomeno sociale capace riempire i cinema nel bel mezzo dell’estate. Preannunciato da una massiccia campagna di comunicazione, il film di Greta Gerwig è sbarcato nelle sale di (quasi) tutto il mondo alla fine dello scorso luglio. Meno di un mese dopo aveva già superato il miliardo di incassi globali, confermandosi il maggior successo del 2023 e puntando a scalare la top ten della storia del cinema.
Al di là dei numeri, Barbie ha aperto numerosi fronti di discussione sulle modalità con cui la regista statunitense ha portato sul grande schermo la storia della bambola per eccellenza. Spesso associata a modelli femminili stereotipati e condizionati dall’immaginario maschile, nello sguardo di Gerwig (e del compagno Noah Baumbach, co-sceneggiatore del film) Barbie diventa una paladina del femminismo, un'icona per le donne che vogliono emanciparsi dalla società patriarcale. Ma sarà davvero così? Ne parliamo con Barbara Poggio, ordinaria di Sociologia dei processi economici e del lavoro e prorettrice alle politiche di equità e diversità.

Con oltre 1,3 miliardi di dollari incassati, Barbie si propone come fenomeno dell’estate 2023. Qualcuno lo ritiene una riuscitissima operazione di marketing; per altri, ci troviamo davanti al manifesto di un nuovo femminismo pop. Cosa ne pensa?

«La mia sensazione è che il film sia entrambe le cose. Da un lato, uno straordinario spot di quella che non a caso è la bambola più diffusa al mondo e lo è proprio grazie alle efficaci strategie promozionali dell’azienda che la commercializza, che è al contempo produttrice e protagonista del film. Dall'altro, però, è anche un prodotto più complesso, che gioca con una pluralità di registri, non sempre allineati. Tra gli obiettivi dichiarati del film c’è infatti quello di decostruire quel modello di iperfemminilità e quegli stereotipi di cui la bambola della Mattel è stata a lungo portatrice – non a caso la protagonista principale è 'Barbie stereotipo' –, ma l’operazione presenta varie ambivalenze e qualche rischio di 'pinkwashing'.
Per questa opera di decostruzione in alcuni passaggi il film ricorre all'ironia (un registro particolarmente efficace per evidenziare la presenza di stereotipi), in altri invece utilizza un taglio più didascalico, talvolta un po' verboso, con il rischio di appesantire il messaggio, rendendolo forse meno comprensibile per il pubblico più giovane, che sembra esserne il target principale».

Davanti alla scelta tra scarpa col tacco e Birkenstock, il primo istinto di Barbie è per la conservazione, per il non mettersi in gioco. È così difficile rompere lo stereotipo?

«Certo, gli stereotipi sono schemi mentali basati sulla categorizzazione che utilizziamo nella quotidianità per processare rapidamente le informazioni che ci arrivano dall’ambiente circostante. Si tratta di semplificazioni, talvolta anche fuorvianti, che ci consentono di agire in modo funzionale, ma che, proprio per la loro intrinseca facilità e comodità di utilizzo, possono trasformarsi in gabbie, contribuendo a riprodurre disparità e discriminazioni. Sono schemi straordinariamente persistenti, che – soprattutto quando si radicano all’interno di una cultura, trasformandosi in rigide aspettative di comportamento – risultano difficili da contrastare e superare, anche da parte delle persone che rischiano di esserne maggiormente penalizzate».

Sasha, la giovanissima figlia dell’impiegata Mattel che Barbie e Ken incontrano nel mondo reale, si dimostra particolarmente attenta a temi come il rapporto tra i generi e il patriarcato. Le nuove generazioni sono davvero più consapevoli?

«Nelle generazioni più giovani, in particolare tra le ragazze, si registra nel complesso una maggiore consapevolezza rispetto ai temi dei diritti e del rispetto, ma si rileva al contempo il persistere di significativi stereotipi di genere, spesso veicolati anche da canali digitali e social media, che possono avere un impatto molto significativo sulle aspettative e le relazioni di genere. Basti ricordare che tra i principali target dei discorsi d'odio troviamo proprio le donne, o richiamare i diversi casi di violenza di gruppo al centro del recente dibattito pubblico e le modalità della loro diffusione sui social media. Va inoltre evidenziato come, anche tra le generazioni più giovani, si riscontrino su questi temi significative differenze legate ai particolari ambiti e contesti di socializzazione».

Il tentativo dei Ken di alterare la costituzione di Barbieland è respinto. La supremazia femminile è ribadita, con alcune aperture alla partecipazione maschile. Esiste una strada per superare l’approccio binario nella gestione del potere?

«Uno dei rischi del film è quello di semplificare la questione centrale, riducendola ad una sorta di 'guerra tra i sessi', con una netta divisione e contrapposizione tra uomini e donne, in cui alla fine sembra tra l’altro che per liberare le donne dal virus del patriarcato possa bastare pronunciare una semplice formula. La realtà è sicuramente più complessa e la strada per il cambiamento passa necessariamente attraverso un processo culturale, che richiede più leve ed azioni, tra cui sicuramente quella educativa, che vadano appunto nella direzione di superare una visione binaria della società, valorizzando invece l'intersezione tra le molteplici differenze che la attraversano. Un obiettivo che richiede il coinvolgimento di tutte e tutti, a partire dalla consapevolezza che gli stereotipi di genere rappresentano una limitazione e un vincolo per ogni persona».