© Klaus Haagen

Storie

Riflessi e riflessioni oltre l’obiettivo

In ricordo di Klaus Haagen: la sua passione per la fotografia in un’intervista del 2002

19 novembre 2020
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In ricordo del professor Klaus Haagen recentemente scomparso, ripubblichiamo l’intervista di Francesca Menna uscita con il titolo Riflessi e riflessioni: guardare e vedere oltre l’obiettivo sul periodico dell’Università di Trento UNITN nel febbraio 2002. L’intervista è stata fatta in occasione della mostra fotografica di Klaus Haagen ospitata dalla Facoltà di Economia (oggi Dipartimento di Economia e Management) nell’ambito della rassegna ARTeconomia.
Klaus Haagen, allora docente di statistica matematica presso l’ateneo e fotografo per passione, nell’intervista racconta la sua visione personale della fotografia e la filosofia con cui portava avanti questo profondo interesse.

Come e quando è nata la sua passione per la fotografia?

Quando avevo otto anni mi hanno regalato una “agfa clack”. Era una macchina fotografica semplicissima, con pellicola di formato 6x9 e solo un tempo di esposizione. È stata proprio l’estrema semplicità di Klaus Haagenquesto mezzo a farmi capire immediatamente che la sua potenzialità risiedeva non tanto nelle sue caratteristiche tecniche, che come ho detto erano veramente scarse, quanto piuttosto nell’uso che se ne poteva fare. Grazie a questa macchina fotografica ho potuto realizzare le mie prime foto che avevano come soggetto degli alberi.

Come si concilia il lavoro di docente universitario con questo interesse artistico?

Uno scrittore austriaco ebbe una volta a dire che “chi capisce solo la fisica, non capisce neanche questa”. Sono assolutamente convinto che questa affermazione non valga solo per la fisica bensì per tutte le discipline. Nella mia attività di ricerca mi occupo soprattutto di modelli stocastici con variabili latenti, cioè non direttamente osservabili e quindi indirettamente misurabili solo tramite indicatori. Non vedo la statistica matematica solo come una semplice applicazione della matematica; spesso si cercano strategie per evidenziare relazioni tra elementi coinvolti nella descrizione di un problema e si tratta, quindi, di saper vedere e non solo guardare. È quello che molte volte accade con la fotografia: una buona foto dipende da quello che il fotografo vede nel momento dello scatto, che non è semplicemente quello che il mirino inquadra.

Che cos’è per lei la fotografia? Un modo per esprimere qualcosa che ha dentro o, viceversa, l'esterno che comunica a lei qualcosa?

Direi che entrambe le cose sono importanti e, anzi, credo che sia molto difficile separarle. Questi due aspetti formano un tutto unico, due facce della medesima medaglia, complementari l’una all’altra. Nelle mie foto vorrei sì cogliere la bellezza nella natura, ma soprattutto quella delle cose ordinarie, quotidiane, che sono costruite per soddisfare certi bisogni. Tutti gli oggetti che usiamo, che ci circondano senza quasi che ce ne accorgiamo e che spesso si guardano in funzione della loro utilità, nascondono a mio avviso qualcos’altro, una loro bellezza recondita che invita alla scoperta. Trovare questa bellezza in cose banali come una bottiglia in PET per acqua minerale, in un comune edificio, nel riflesso sulla fiancata di una automobile non mi fa provare meno stupore di quando osservo una montagna maestosa, un violento temporale, un ruscello che si gonfia per il disgelo e che forma splendide cascate. Guardare e vedere oltre quello che l’obiettivo inquadra è un modo per portare fuori quello che ho dentro e nel farlo sono spinto a osservare in modo nuovo quello che mi circonda, che è esterno a me.

Qual è il ruolo del colore, della luce e quale quello dell'oggetto nella sua ricerca fotografica?

Credo che il colore sia il calore della vita, quell’elemento che per primo ci coglie di sorpresa e ci riempie di stupore. È interessante pensare che i neonati hanno una percezione molto ridotta dei colori, percezione che via via, con l’esperienza, si affina e si arricchisce di milioni di tonalità e sfumature. Guardare il colore è un modo di imparare, anzi impariamo a vedere il colore via via che facciamo esperienza di esso.

Le sue opere hanno un titolo?
Non hanno un titolo ufficiale, non le ho battezzate. Credo che chiunque entri in contatto con esse possa dar loro un nome, lasciando correre la fantasia o interrogando il proprio inconscio.

C'è un oggetto o una situazione che le piace particolarmente fotografare?

Ho sempre provato grande emozione nel fotografare le nuvole; in qualche modo esse rappresentano il prototipo delle mie fotografie: non hanno forma proprio perché ne possono assumere infinite, giocano col colore e con la luce e si muovono del tutto libere.

C'è un’opera che lei ritiene essere la più riuscita o la più significativa o alla quale particolarmente affezionato?

Sono molto affezionato alle fotografie che hanno come soggetto la bottiglia di PET; credo siano una buona sintesi di come gli oggetti della vita quotidiana possano sempre sorprenderci e lasciarci meravigliati se spendiamo un po’ di tempo per osservarli.

In che modo la malattia ha influenzato la sua carriera di fotografo?

Da quando mi sono ammalato di Parkinson ho avuto molte difficoltà a muovermi e a viaggiare. Costretto, quindi, a stare nei posti e limitato nei movimenti, ho notato che la bottiglia sul tavolo aveva dei bei riflessi. Così un po’ alla volta mi è venuta l’idea di fotografarla esaltandone i dettagli. Insomma, un modo per riuscire a trovare la bellezza generale del mondo anche negli oggetti, nelle immagini più quotidiane come mollette per appendere i panni, bicchieri e altri oggetti comuni guardati attraverso la deformazione della bottiglia.

Veniamo alla mostra a Economia: che cosa direbbe a una persona che si accinge a visitarla?

Che lasci parlare la sua immaginazione e il suo cuore…

Le sue opere sono in vendita?

Si, alla fine della mostra le opere esposte potranno essere acquistate e il ricavato sarà devoluto a favore delle associazioni che sostengono la ricerca per combattere il morbo di Parkinson.

Klaus Haagen (1944 – 2020) nasce a Wohlau (Slesia, Germania), successivamente si trasferisce a Kelheim (Baviera). Le sue prime fotografie, realizzate a otto anni con una «agfa clack», ritraggono i paesaggi e i fiori che incontra nei suoi viaggi in bicicletta, dai 13 anni in poi, in Svizzera, Austria, Olanda, Polonia, Danimarca, Svezia, Belgio, Francia, Spagna, Portogallo, Grecia, Norvegia e Italia. In un periodo trascorso come research fellow presso il Dipartimento di Statistica dell’Università di Berkeley (California), visita alcuni splendidi parchi nazionali in America e in Alaska dove realizza molte fotografie. Altre esperienze fotografiche, tese a cogliere gli aspetti sorprendenti sempre presenti -per chi li sa vedere - nella realtà quotidiana, contraddistinguono i suoi molteplici viaggi in Messico, Nepal, India, Giappone. Nel 1980 si manifestano i primi sintomi del morbo di Parkinson e, da quel momento, limita i suoi viaggi, scegliendo di privilegiare i convegni di neurologia, dove presenta i risultati delle sue ricerche sui molti problemi connessi alla malattia che lo ha colpito. 
Dal 1981 si è trasferito all’Università di Trento dove, divenuto professore ordinario di statistica matematica, ha prestato servizio ininterrottamente alla Facoltà di Economia (poi Dipartimento di Economia e Management), fino al raggiungimento della pensione nel 2014.
Ha orientato la sua ricerca nella direzione dei modelli stocastici con variabili latenti, scrivendo numerosi articoli sulle più importanti riviste statistiche internazionali. Sui temi studiati ha scritto anche numerosi saggi e ha fondato in Italia con l’editore Springer una collana di quaderni di statistica.
Ha studiato il morbo di Parkinson sotto il profilo scientifico presentando i risultati delle sue ricerche a congressi internazionali di neurologia ed è autore, con il neurologo Niels Birbaumer, di un libro autobiografico "Pensare, solo questo rimane. Dialogo di un uomo senza corpo con il suo cervello" (Guerini, 2006).